Gregory Corso

Ph. Dario Bellini


Getting to the Poem

I have lived by the grace of Jews and girls
I have nothing
and am not wanting

I write poems from the spirit
for the spirit
and have everything

A poet’s fate is by choice
I have chosen
and am well pleased

A drunk dreamer in reality
is an awful contradiction
Loved ones fall away from me
and I am become wanting

Self-diagnosis:
A penniless living legend
needs get the monies
or write more poems
or both
If you have a choice
between two things
and cannot decide
—take both
‘Tis not right for me to be wanting

I take out my pen
I pee white gold
And on the wall
I write thereon:
It was there

 

*

 

Arrivare a una poesia

Ho vissuto grazie agli Ebrei e alle ragazze
Non ho niente
e non mi manca niente

Scrivo poesie dallo spirito
per lo spirito
e ho tutto

Il destino di un poeta è una scelta
Io ho scelto
e sono soddisfatto

Un sognatore ubriaco nella realtà
è una contraddizione terribile
Le persone amate si staccano da me
e ora qualcosa mi manca

Autodiagnosi:
Una leggenda vivente senza un soldo
deve far quattrini
o scrivere altre poesie
o tutt’e due

Se ha una scelta
fra due cose
e non puoi deciderti
-prendile entrambe.
Non è giusto che qualcosa mi manchi

Tiro fuori la penna
Piscio oro bianco
E sul muro
ci scrivo sopra:
Era lì
sempre lì
minutamente contenuto
in una mano divaricata

Fuori
una rondine caduta
segna martedì
O mio cuore! finalmente
dopo tanto penare
me ne sto in pace
La guerra semisecolare
che combattei con fendenti
come un Boscimano africano
che infilza padroni delle terre
è finita

Io vivrò
e non saprò mai la mia morte

 

Rivista “Poesia” (n.231, ottobre 2008), traduzione di Massimo Bacigalupo

Anya Kampmann


nowa sól

fioriscono le rosse graminacee
e al vetro
di ormai morte lanterne
si appiglia l’ultima luce

il papavero rosso
appeso ai fili è
seccato da tempo boschi di fresco verde
racchiudono la regione

solo gli spaventapasseri indicano
le direzioni con
lunghe braccia tubi oscillanti
ritagliati nella plastica

passammo loro accanto nel vagone
i freni funzionavano male

voleva scendere la sera
di dietro alle lanterne
la campagna si alzava in ondate

come ingoiasse ancora
qualcosa
con la sua gola senza direzione

quasi tremasse sotto il vento leggero.

 

Traduzione di Nino Muzzi

Poesia n. 325 Aprile 2017

André Gide

Quest’anno cara, non c’è stata primavera;
Non canti sotto i fiori e non fiori leggeri,
Non risa e metamorfosi, né Aprile;
Non avremo intrecciato le ghirlande di rose.

Chini eravamo al chiarore delle lampade
Ancora, e su tutti i libri dell’inverno
Quando ci ha sorpreso un sole di settembre
Pavido e rosso e come anemone di mare.

Mi hai detto: ”Guarda! Ecco l’Autunno.
Dunque, è stato un sonno il nostro?
Se dobbiamo vivere ancora
Tra questi in-folio, rischia di diventar monotono.

Forse, è fuggita ormai una primavera
Senza che la volessimo apparire;
Perché in tempo parli a noi l’aurora,
Apri le tende delle finestre”.

Pioveva. Le lampade abbiamo ravvivato
Impallidite per quel sole rosso
E ci siamo rituffati nell’attesa
Della chiara primavera che è alle porte.

 

Rivista “Poesia” (n. 84, maggio 1995), traduzione di Roberto Rossi Precerutti

Ángel Crespo



La voce

In ogni dove emerge una lingua
che in mezzo agli alberi canta, canta.
Sale un voce. Ignoro quanti uccelli
ha la mia voce che vive tra gli alberi.
Ignoro quanta voce ha la mia voce.
Canta al di sotto dei rami più verdi.
Con quei voli che nascenti dalla bocca
mia, canta in fretta in cima alle mie labbra.

Una voce è quel filo che si rompe
quando un uccello passa con volo contorto,
quand’anche un volo non ha voce umana
e affonda il vento in cui un soffione vola.

E non so quanto filo ha la mia voce,
né chissà lasciasse un alone
l’ala della mia voce
che ascende come un volo.
Ma sale fino ai rami
verdi e così li popola
da spezzarli all’istante e calda linfa piove
proprio sulle mie labbra,
uguali alle mie fauci.

 

Rivista “Poesia” (n.195, giugno 2005), traduzione di V. Nardoni

Marcel Proust


Stanco d’aver sofferto, e più d’avere amato,
dopo avermi ammaliato con le sue lontananze,
rinserra intorno a me la vita il cerchio uguale,
melancolicamente si ripiega e stupisce.
Il commovente autunno ascoltando, chi sa
se soffochi un singhiozzo o s’impedisca un canto
solenne come l’ora e, come questa, ambiguo.
Superava una svolta, senza saperlo, il cuore.

 

Rivista “Poesia”, traduzione di Roberto Rossi Precerutti n.199, novembre 2005

Katarina Frostenson


Lettera

La tua insonnia entrò nel mio sangue
e le notti divennero bianche
la primavera non arrivò col sonno, qui
dall’altra parte del golfo è la veglia
più nuda d’ogni altra cosa
I cerchi di gesso delle betulle
Il rovello dei pensieri esce
nell’ampiezza delle strade: io ti scrivo
dalla città delle linee
la mania è desta, linee, linee
ebbrezza si chiamano le automobile gialle
banane infila su una specie di mensola
presso la facciata
e le strade sembrano andare dritte verso le acque: c’è
un meraviglioso rigoglio selvatico
nei parchi, immobili quadrati
in mezzo a tutto
Canali e inchiostro
il blu della Neva così
corrono le linee sull’acqua
ponti che spalancano
tegole riposano contro il grigio del cielo
e là sotto, forse
una barriera
che s’allunga in fuori verso la tua notte
e collega
un’intera città, una
singolare Vineta
di campane sonanti, strisce, rosse
ferite e un’aperta
pena ch’era così comune

 
Rivista “Poesia”, n.232, novembre 2008, traduzione di Enrico Tiozzo

Andreas Okopenko


Primo sole

Ecco, ora puoi chiudere un po’ gli occhi;
no, non così forte, solo un po’, tanto che le palpebre
fredde si posino sugli occhi.

Continuerai a vedere nel cielo un simile azzurro.
Quasi capirai dove di colpe se ne sia andata la neve.
Certo, ancora non puoi metterti sotto i tre pioppi lì allineati.
Comunque la cornacchia non c’è più. Oggi
ho sentito pigolare un vero uccello di buon mattino.

Non stai fuori ancora molto, per il momento.
Ma forse domani già potrai tenere un po’ più a lungo gli occhi chiusi.
Ora il sole crescerà di giorno in giorno.
E se tutto va bene presto è primavera.

Rivista “Poesia” (n. 303, aprile 2015), traduzione di Gio Batta Bucciol

Aleksandr Blok


Tutto morirà sulla terra – e la madre, e la gioventù,
La moglie tradirà, e scomparirà l’amico,
Ma tu impara ad assaporare un’altra dolcezza,
Guardando al freddo circolo polare.

Prendi la tua barca, arriva al polo lontano
Su pareti di ghiaccio – e sommesso dimentica
Coma là si amava, si periva e si lottava…
E dimentica l’antica terra delle passioni.

E ai sussulti del freddo lento
Abitua l’anima stanca
Affinché qui non le occorra niente
Quando da là sgorgheranno i raggi.

 

7 settembre 1909

Rivista “Poesia” (n. 60, marzo 1993), traduzione di Paolo Galvagni

Anna Achmatova


Dedica

Davanti a questo dolore si curvano monti,
Non scorre un gran fiume,
Ma sono solide le serrature del carcere,
E dietro di esse i “covi dei forzati”,
E una malinconia di morte.
Per quanto alita un vento fresco,
Per qualcuno si addolcisce il tramonto,
Non sappiamo, siamo ovunque le stesse,
Sentiamo solo l’odioso scricchiolio delle chiavi
E i passi pesanti dei soldati.
Ci alzavamo come una messa mattutina,
Camminavamo per la capitale inselvatichita,
Là ci incontravamo, più esanimi dei morti,
Il sole più basso, e la Neva più nebbiosa ,
Ma la speranza canta sempre in lontananza.
La condanna…E subito scorrono le lacrime,
Da tutti ormai allontanata,
La vita è come strappata dolorosamente dal cuore,
Gettata brutalmente supina,
Ma va avanti… Barcolla… Sola…
Dove sono ora le amiche occasionali
Dei miei due anni infernali?
Cosa scorgono nelle nevi siberiane?
Cosa intravedono nel disco della luna?
Mando loro il mio addio.

Marzo 1940

Traduzione di Paolo Galvagni, “Rivista Poesia” n. 57, dicembre 1992

Günter Grass


Nell’uovo

Viviamo nell’uovo.
La parete interna del guscio
abbiamo già scarabocchiato con osceni
disegni e il nome dei nostri nemici.
Veniamo covati.

Chiunque ci covi
sta covando pure la nostra matita.
Quando usciremo un giorno
faremo subito un ritratto
di chi cova.

Supponiamo, noi, di essere covati.
Ci immaginiamo un bravo pennuto
e scriviamo temi scolastici
su colore e razza
della nostra gallina covante.

Quando usciremo fuori?
I nostri profeti nell’uovo
litigano per una cifra mediocre
sulla durata della cova.
Presumo un giorno X.

Per noia e reale bisogno
abbiamo inventato incubatrici
in apprensione per la nostra progenie nell’uovo.
Volentieri a colei che ci protegge
affideremo il nostro brevetto.

Ma noi abbiamo un tetto sulla testa.
I pulcini senili
embrioni con conoscenze linguistiche
parlano tutto il giorno
e discutono pure dei loro sogni.

E se non fossimo covati?
Se questo guscio non venisse mai forato?
Se il nostro orizzonte fosse l’orizzonte
dei nostri scarabocchi, ore e sempre?
Speriamo di essere covati.

E se anche parliamo della cova
Pure resta da temere qualcuno
fuori del nostro guscio abbia fame
ci schiaffi in padella con un po’ di sale –
fratelli nell’uovo, cosa faremo allora?

Rivista “Poesia”, traduzione di Paolo Scotini n.107, giugno 1997