Luigia Sorrentino


la notte si era accasciata

la giovinezza
l’avevamo trascorsa
nel peso della sua immortale rovina

noi che non eravamo mai stati
del tutto vivi all’amore
c’eravamo concessi al freddo
stretto nelle narici, nelle vene
avevamo perduto tutte le parole

la forza di una generazione

 

Piazzale senza nome (Collana Gialla Oro Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021)

Ph. Alessandro Di Caro (Luigia Sorrentino, Urbino 1984)

Giovanna Rosadini

Si spoglieranno gli angeli
durante il temporale, e pelle e piume
offriranno alle carezze dei lampi.
Corpi e città, Isacco Turina

 

Scrivere è un ritorno – innesco che apre voragini
di senso, un andare disarmati incontro
ad ombre infestanti e guerriere. Scrivere
è il gesto che consuma l’attesa, di una vita forse
prigioniera fra lamiere, e ancora sconosciuta.

 

Frammenti di felicità terrena (LietoColle-Pordenonelegge, 2019)

Foto di Dino Ignani

Intervista al poeta: Gian Mario Villalta

Gian Mario Villalta. Professore di liceo, saggista e narratore (il suo ultimo romanzo si intitola Bestia da latte, 2018, SEM editore), segue da molti anni il panorama poetico italiano (particolare attenzione ha dedicato all’opera di Andrea Zanzotto collaborando al Meridiano Mondadori e curando l’Oscar degli scritti letterari) e scrive poesia (Premio Viareggio 2011 con Vanità della mente, Mondadori editore). Il libro di poesia più recente è Telepatia (Lietocollle 2016). È direttore artistico di pordenonelegge. festa del libro con gli autori.

 

1. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?

La poesia, soprattutto quella italiana, sta bene. Però è fortemente ipocondriaca, forse a causa di tutti quelli che fingono di interessarsene (per educazione? per malizia?) e le richiedono continue visite e infiniti prelievi per innumerevoli esami, radiografie e tomografie inesauste.
Chi non ha mai avuto la sensazione che qualcuno si senta in obbligo di fare domande sulla sua salute, senza che gli importi davvero? Oppure, per fortuna più di rado, quasi speri che gli si risponda accusando qualche acciacco? Ecco, da molto tempo mi pare che la situazione sia questa.

 

2. Ma, prima di tutto, cos’è per te la poesia?

Il punto di incontro tra memoria biologica e memoria culturale? Il brusio del corpo e il brontolio della coscienza che si fanno voce unisona e dissonante? Devo cercare un’altra frase ad effetto?
La domanda non è nuova, e la risposta è sempre stata condizionata (e lo è anche per me adesso) da una questione molto seria, che vede il fare (l’arte) da una parte e la morale (l’agire) da un’altra. Quello che complica la faccenda, a un certo punto, è la politica: è un’arte, se sì, l’“arte della politica” come intende l’“agire”, fa parte del fare?
Ma non basta, c’è qualcos’altro, ciò che l’uomo fa su se stesso attraverso l’esperienza, l’esercizio, l’ascesi, l’anacoresi, quelle che Peter Sloterdijk ha chiamato antropotecniche: che cosa fa l’uomo quando istruisce attraverso l’esercizio e l’esperienza se stesso a delle forme del fare (arte) che incidono sul duo agire (morale) e lo modificano?
Ho incontrato molto presto nella poesia questo punto di cecità dove il saper fare finisce e deve iniziare il modo di essere e dove il modo di essere nutre il saper fare. Un punto di cecità dove convergono molte forme del sapere, molte modalità del sentire e molti momenti dell’esperienza.

 

3. E chi sono i tuoi maestri?

Solo di poesia? In ordine cronologico o in assoluto?
Facciamo in ordine cronologico: Th.S. Eliot, Andrea Zanzotto, Paul Celan, Seamus Heaney, le principali pietre d’inciampo.
Molto però ho imparato dagli amici poeti, quello che si impara anche controvoglia, quello che si dice “è una buona strada, ma non la mia”, oppure quello che scopri con il tempo che è giusto e prima credevi sbagliato e proprio allora è il momento di capire meglio anche quello che chiedi a te stesso.
In fondo però devo dire che quella che è stata la mia esperienza più vicina a ciò che si intende come un rapporto maestro-allievo mi lega senza dubbio ad Andrea Zanzotto.

 

4. Che cosa occorre per diventare un poeta?

Se torniamo alla risposta 2, possiamo aggiungere una coda: il poeta si giudica per quello che fa, ma se non diventa, se poi non è quell’uomo che fa quella cosa, allora fa il poeta ma non lo è. Parimenti si dica della donna poeta, con le differenze caso per caso ma senza disparità alcuna di valore.
Perciò direi che occorre esercizio per riconoscere i propri movimenti originari, quelli che legano corpo e parola, e poi metterli alla prova nella partita della vita, e poi di nuovo allenarsi e di nuovo giocare. E scrivere, qualche volta. Non troppo, dopo che si sono imparate le regole del gioco così bene che si potrebbe fare l’arbitro.
(Tra parentesi, com’è difficile giocare e fare l’arbitro! Raccomanderei almeno un’attenzione: se fate l’arbitro non vestitevi come i giocatori di una delle due squadre e se giocate in una delle due squadre non mettetevi a fischiare rigori).

 

5. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori?

Perché non siamo (stati) un paese di lettori di romanzi, di cronache e di biografie. E adesso che il romanzo, la cronaca e le biografie sono diventate materia di scambio mediatico perché narrabili (notiziabili, si dice?), la pretesa di questi “lettori” di accostarsi alla poesia come ci si accosta ai gialli produce delusione.
Sono abbastanza convinto, inoltre, che la poesia non sia destinata ai grandi numeri di lettori, ai quali può forse arrivare una diversa versione popolareggiante, che veicola analoghi temi e simili intenti formali. Quella cultura popolare che un tempo incontrava Dante, Ariosto e Pascoli, Verdi e Puccini. Oggi però non c’è più nulla di popolare; c’è il pop, che è la produzione industriale di un oggetto culturale da piazzare sul mercato più vasto a disposizione. Allora non restano che esperienze individuali che si incontrano, se va bene in reticoli o crocevia di molti sentieri.
Il lettore di poesia è incerto, diffidente, totalizzante, ignorante, entusiasta, coltissimo… e cerca sempre nel rapporto con la poesia qualcosa che lo riguardi, che gli parli di lui, che lo svegli, anche a torto, ma non una forma di intrattenimento.

 

6. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Ci siamo buttati tutti sulla chiacchiera furiosa intorno all’ultimo istantaneo capolavoro (ah, Leopardi, e la sua “menstrua beltà”, quelli sì che erano tempi!), sull’ultimo fichissimo modo di dire… e pretendiamo di leggere poesia? Quella ha bisogno di tempo – tempo, silenzio e solitudine. Un’altra cosa. Il tragitto dalla parola popolare a quella della cosiddetta cultura alta si è interrotto: non c’è più una produzione popolare di lingua, c’è invece una popolazione che ripete una lingua prodotta da influenzatori stipendiati dal mercato; anzi il tragitto forse è invertito: i poeti e gli scrittori credono di contemporaneizzarsi meglio se adottano la lingua degli influenzatori del mercato. E le loro forme di comunicazione.
Questo per dire che la responsabilità è di tutti.
Ma una rinnovata attenzione per la lingua (la mater-materia della poesia) sarebbe già qualcosa.

 

7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Essere sinceramente appassionati. E/o ammaliati, scoperti, abbandonati, provocati, odiati, perseguitati, esaltati dalla poesia.

 

8. Gli Instapoets aumentano le possibilità di avvicinare nuovi lettori agli scaffali di poesia?

No.

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Come si fa a rispondere? Non sono sicuro che vorrei, però, che si leggesse più poesia al patto di ridurre la poesia a barzelletta o effettaccio emotivo rimbalzabile istantaneamente a chissà chi. A quel punto, sarebbe meglio che se ne leggesse di meno. Forse anche niente.

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

Propongo una non ironica ma stratificata risposta intertestuale: l’ultima lassa di La poesia è una passione? di Vittorio Sereni:

Sì li ho amati anch’io questi versi…
anche troppo per i miei gusti. Ma era
il solo libro uscito dal bagaglio
d’uno di noi. Vollero che li leggessi.
Per tre per quattro
pomeriggi di seguito scendendo
dal verde bottiglia della Drina a Larissa accecante
la tradotta balcanica. Quei versi
li sentivo lontani
molto lontani da noi: ma era quanto restava,
un modo di parlare tra noi –
sorridenti o presaghi fiduciosi o allarmati
credendo nella guerra o non credendoci –
in quell’estate di ferro.
Forse nessuno l’ha colto così bene
questo momento dell’anno. Ma
– e si guardava attorno tra i tetti che abbuiavano
le prime serpeggianti luci cittadine –
sono andati anche loro di là dai fiumi sereni,
è altra roba altro agosto
non tocca quegli alberi o quei tetti,
vive e muore e sé piange
ma altrove, ma molto molto lontano da qui.

 

Intervista a cura di Andrea Cati

Eleonora Rimolo


Come scende la vita queste scale
come si sottrae all’incontro, come
affonda dentro la ferita cava, pulsante
quando terminato il giorno guaisce
il cane disperato col seme in eccesso.
Vorrei che fossi tu, vorrei
che nulla restasse inviolato,
bere quanto trabocca ed infine

ubriachi, prossimi alla partenza
con le code che salutano e le lingue
asciutte, noi educati viaggiatori noi
bestie turbate, incontaminate.

 

La terra originale (LietoColle, 2018)

Foto di Daniele Ferroni

Maria Grazia Calandrone

maria-grazia-calandrone

Niente come le mani
parla Rosa Della Corte, incriminata dell’uccisione del fidanzato Salvatore Pollasto

 

Vidi dalla sua macchina la sua mano come la conoscevo – ma bianca
di vita vegetale.
Vidi il suo ultimo saluto alla terra. Contemporaneamente
vidi nei voli di quel primo mattino la tortuosa pazienza di una natura che non era stata montata
osso su osso per essere leggera, eppure
ha compreso il cielo.

Dopo, lui – la sua fascia di chiarore.
Dopo, lui – mero impasto di midolla.
La radiazione nera del suo corpo – il gorgo
del suo corpo – infettava l’aria
cristallina di aprile.

Ora sono una cupa necessità di ordine.
Ho riordinato tutti gli eventi materiali allo scopo di ritornare sola.
Cado nella mia festa. E il mondo è curvo sotto la pressione.

Come lasciano in sosta le giostre
hanno lasciato te, cosa che pure sembra respirare
davanti al mare e in me
ha iniziato a formare lacune
dalla mano, la stessa – ma bianca:
un ponte vuoto tra l’apparenza del mio corpo
(perché non è più vero che io viva) e te, che sei stato anzitempo
terminato. Ma c’è un niente premuto sul tuo volto
e questo niente sono le mie mani.

 

Roma, 8 ottobre 2009

 

Gli scomparsi (LietoColle, 2016)

Francesca Serragnoli

francesca serragnoli

Che farai, Dio, se muoio?
Rainer Maria Rilke

 

Luccica come una gabbia il mio futuro
è ritornato mare calvo
l’orizzonte è un bisturi profondo
piega il ferro della schiena.

Sott’acqua la confusione diventa impazzimento
muovo il mio corpo
rompo il mio corpo
non so tenere la testa
occhi salati
fili scoperti in faccia.

Se non fosse che vivo ancora
ogni attimo aspettando
lascerei cadere il sangue torturato
nel mare bocca di lupo.

Le stelle sono i tuoi occhi gialli
e non è nemmeno la feroce spina del suo pelo
anche l’alga leggera esce dalle profondità
ed è una sorgente tutta sparsa
dai pori entrano ed escono le vele dei peccati.

La mia vita è anche questo squarcio
ho un cuore spaventato
penso ai tuoi capelli bagnati
alla pioggia dei suoi occhi
che ti corre nella schiena.

 

Aprile di là (LietoColle, 2016)

Gian Mario Villalta

villalta

Il pensiero di te, che ha origine
in me stesso, viene da altrove,
suppongo, e lontano, per questo mi chiama,
o è come se lo facesse,
e spesso sorprende la mente
intenta al lavoro, alla guida, a se stessa
nel riflesso che rigira il presente.

Rigira l’origine, il pensiero,
e quando arriva ci trova già
rivoltati verso il futuro, in fuga
da noi stessi, pieni di desiderio
di essere stati: “Celeste
è questa
…” …facoltà, che hanno gli umani
di rivivere rimorire
lontani, celeste
è il colore del cielo,
a volte, quel colore inventato da noi
umani, forse da uno rimasto solo
e nel pensiero vicino all’amore
come vicino all’amore nessuno.

 

Telepatia (LietoColle, 2016)

© Foto di Dino Ignani

Marco Pelliccioli

pelliccioli

Nico

Nico sistema la frutta, le casse,
da poco hanno steso lenzuola
qualcuno brandelli strizzati nel gelo.
Per strada hanno aperto i cancelli
il vigile urbano evapora grappa
due nomadi slavi all’uscita del bar.
Corrono tutti a quest’ora
Nico pulisce, saluta, rincuora chi passa,
il cappello, i guanti, le lenti appannate,
il coltivatore che scarica a terra il fresco raccolto:
le bucce, le arance, i ciuffi arruffati,
le casse, i finocchi, l’uva, la terra:
“Questa è speciale, la vuoi assaggiare?”
e l’acino è in mano, sfregato su un panno,
un soffio, poi in bocca.
A volte mi chiedo cosa lo renda così reale,
forse suo padre appeso in cornice
o i settant’anni di questo negozio
forse il quartiere, ma se varchi la soglia
e senti l’orda dei forti sapori
la terra, la frutta, le casse,
comprendi che lui è quella terra
le mani, la faccia, le rughe
solchi e sentieri…

 

L’orfano (LietoColle, 2016)

Clery Celeste

clery celeste

Tutto si riconduce a un cercarsi
di complementari gruppi sanguinei
tra foreste di vetro e provette
siamo uno scambio di liquidi
il nostro baciarsi è solo il gusto
di un semplice trasferirsi di fluidi
e tutto il resto non si sa da dove passi
se dal mio cuore
arriva poi al tuo
o si perde per strada, tra questo traffico
che ci opprime l’asfalto nelle ore di uscita
dalle fabbriche il cemento
e tutte le altre sostanze radioattive
come farfalle le vedo volare.

 
La traccia delle vene (LietoColle, 2014)

Maddalena Lotter

lotter

I corpi negli anni, questo fa curiose le mie mani
alla ricerca di età diverse
voglio toccarli tutti, gli altri
con i loro mondi di pelle.
Solo la pelle risponde alla domanda sul tempo.
Il corpo sa di case non mie
dove si entra con educazione
togliendosi le scarpe;
ore ed ore in un letto a carezzarsi
le schiene, muri di vertebre
e la colonna è un’autostrada
dei tuoi anni di ieri
a cui non ho partecipato.

Ma se ti volti nel buio e ci guardiamo
allora ho un nome,
io sono l’oggi immortale.

 

Verticale (LietoColle, 2015)

© foto di Daniele Ferroni