Charles Simic

 

Sono cresciuto chino
su una scacchiera.

Amavo la parola scaccomatto.

Il che sembrava impensierire i miei cugini.

Era piccola la casa,
accanto a un cimitero romano.
I suoi vetri tremavano
per via dei carri armati e caccia.

Fu un professore di astronomia in pensione
che m’insegnò a giocare.

L’anno, probabilmente, il ’44.

Il Re bianco andò perduto,
dovemmo sostituirlo.

Mi hanno detto, non credo sia vero,
che quell’estate vidi
gente impiccata ai pali del telefono.

Ricordo che mia madre
spesso mi bendava gli occhi.
Con quel suo modo spiccio d’infilarmi
la testa sotto la falda del soprabito.

Anche negli scacchi, mi disse il professore,
i maestri giocano bendati,
i campioni, poi, su diverse scacchiere
contemporaneamente.

 

*

 

I grew up bent over
a chessboard.

I loved the word endgame.

All my cousins looked worried.

It was a small house
near a Roman graveyard.
Planes and tanks
shook its windowpanes.

A retired professor of astronomy
taught me how to play.

That must have been in 1944.

In the set we were using,
the paint had almost chipped off
the black pieces.

The white King was missing
and had to be substituted for.

I’m told but do not believe
that that summer I witnessed
men hung from telephone poles.

I remember my mother
blindfolding me a lot.
She had a way of tucking my head
suddenly under her overcoat.

In chess, too, the professor told me,
the masters play blindfolded,
the great ones on several boards
at the same time.

Hotel insonnia (Adelphi, 2002), trad. it. Andrea Molesini

Raymond Carver

carver
Chiedigli un po’

Con riluttanza mio figlio entra con me
oltre i cancelli di ferro
del cimitero di Montparnasse.
– Che modo di passare una giornata a Parigi! -,
gli vien voglia di dire. E infatti lo dice.
Sa il francese. S’è messo a parlare
con un guardiano canuto che s’è offerto
di farci da guida. Così in tre lentamente
camminiamo lungo file e file di tombe allineate.
A quanto pare, stanno tutti qui.

Fa caldo, c’è pace e il rumore delle strade
parigine qui non arriva. Il guardiano vuol condurci
alla tomba dell’inventore del sommergibile
e a quella di Maurice Chevalier. E a quella
di Nonnie, la cantante morta a ventott’anni.
ricoperta da un mucchio di rose rosse.

Io voglio vedere le tombe di scrittori.
Mio figlio sospira. Lui non vuol vedere niente.
Ne ha viste abbastanza. Ha oltrepassato la noia,
s’è rassegnato. Guy de Maupassant; Sartre; Sainte-Beuve;
Gautier; i Goncourt; Paul Verlaine e il suo vecchio amico,
Charles Baudelaire. Dove ci soffermiamo.

Ma ci sono diversi nomi incisi sulla lapide di Baudelaire
e non capisco che ci stanno a fare.

Il nome di Charles Baudelaire è stretto tra quello della madre
che per tutta la vita gli ha prestato soldi e s’è preoccupata
della sua salute, e quello del patrigno, un pedante
che detestava, ricambiato, lui e tutto quello che lui rappresentava.
– Chiedilo un po’ al tuo amico -, gli dico. Lui glielo chiede.

E’ come se lui e il guardiano ormai fossero vecchi amici
e io fossi qui per esser tenuto buono.
Il guardiano dice qualche cosa e poi mette
una mano sopra l’altra. Sorride. Alza le spalle.
Mio figlio traduce. Ma ho già capito.
– Come un sandwich, papà -, dice mio figlio. – Un sandwich Baudelaire -.

Al che noi tre riprendiamo a camminare.
Il guardiano preferisce far questo che altro.
Si accende la pipa. Guarda l’orologio. E’ quasi ora
di pranzo e di bere un bicchiere di vino.
– Chiedigli un po’ se vuole esser sepolto
in questo cimitero, quando muore.
Chiedigli un po’ dove vuole esser seppellito -.
Mio figlio è capace di dire qualsiasi cosa.
Riconosco le parole tombeau e mort
sulle sue labbra. Il guardiano si ferma.
E’ ovvio che stava pensando ad altro.
A battaglie sottomarine. Al varietà, al cinema.
A qualcosa da mangiare e un bicchiere di vino.
Non certo alla putrefazione, non al decomporsi.
Non all’annichilamento. Non alla propria morte.

Ci guarda in faccia, prima l’uno, poi l’altro.
Chi vogliamo prender in giro? Che razza di scherzo è?
Ci saluta e se ne va.
Diretto al tavolo d’un caffè all’aperto.
Dove potrà togliersi il berretto, passarsi
le dita tra i capelli. Sentire voci e risate.
Il tintinnio concreto delle posate.
Dei bicchieri. Il sole riflesso sui vetri.
Il sole sul marciapiede e sulle foglie.
Il sole che s’insinua sul suo tavolo. Sul suo bicchiere. Le sue mani.

 

Orientarsi con le stelle (Minimum Fax, 2013), trad. it. R. Duranti, F. Durante

Mark Strand


Errore

Scendevamo a valle lungo la corrente sotto un pulviscolo di stelle,
dormendo fino al sorgere del sole. Quando giungemmo alla capitale,
ridotta in macerie, facemmo un enorme falò con le sedie
e i tavoli che riuscimmo a rimediare. Il calore era tanto intenso che gli uccelli
in volo prendevano fuoco e precipitavano al suolo in fiamme.
Li mangiammo, poi a piedi ci addentrammo in regioni
dove il mare è di ghiaccio e il terreno è cosparso
di macigni come lune. Se solo ci fossimo fermati,
voltati, e fossimo tornati al giardino da cui eravamo partiti,
con la sua urna spaccata, il mucchio di foglie che imputridiscono, e ci fossimo seduti
a contemplare la casa e avessimo visto solo il trascorrere
del sole sulle finestre, quello sarebbe
bastato, nonostante l’ululare del vento che sospingeva le nubi verso il mare
come pagine di un libro su cui niente era scritto.

 

Error

We drifted downstream under a scattering of stars
and slept until the sun rose. When we got to the capital,
which lay in ruins, we built a large fire out of what chairs
and tables we could find. The heat was so fierce that birds
overhead caught fire and fell flaming to earth.
These we ate, then continued on foot into regions
where the sea is frozen and the ground is strewn
with moonlike boulders. If only we had stopped,
turned, and gone back to the garden we started from,
with its broken urn, its pile of rotting leaves, and sat
gazing up at the house and seen only the passing
of sunlight over its windows, that would have been
enough, even if the wind cried and clouds scudded seaward
like the pages of a book on which nothing was written.

L’uomo che cammina un passo avanti al buio. Poesie 1964-2006 (Mondadori, 2011), trad. it. D. Abeni, M. Egan

Sandra Beasley

sandra_beasley

 

YOU WERE YOU

I dreamt we were in your favorite bar:
You were you, I was the jukebox.
I played Sam Cooke for you,
but you didn’t look over once.
I wanted to dance. I wanted a scotch.
I wanted you to take your hand off of her.
You were wearing your best smile
and the shirt that makes your eyes green.
If you had asked, I’d have told you
her hair looked like plastic.
But then, my mouth was plastic.
I weighed 300 pounds.
I glittered like 1972.
A man tried to seduce me with quarters
but I could hear his truck outside,
still running. I was loyal to you.
I played Aretha, Marvin, the Reverend Al.
You kissed her all the way out the door.
Later, I tried to make my own music,
humming one circuit against the other,
running the needle up and down.
The bubbles in my blood were singing.
In the morning, they came to repair me.

 

© 2010 Sandra Beasley From: I Was the Jukebox, W.W. Norton & Company Ltd.

 

TU ERI TU

Ho sognato che eravamo nel tuo bar preferito:
tu eri tu, io ero il jukebox.
Ti suonavo Sam Cook,
ma tu non mi guardavi mai.
Avrei voluto ballare. Avrei voluto uno scotch.
Avrei voluto che le togliessi la mano di dosso.
Tu sfoggiavi il tuo sorriso migliore
e la camicia che ti fa gli occhi verdi.
Se me l’avessi chiesto, ti avrei detto
che i suoi capelli sembravano di plastica.
D’altra parte, la mia bocca era di plastica.
Pesavo 130 chili.
Sbrilluccicavo come il 1972.
Un uomo cercava di sedurmi a suon di monete
ma io potevo udire il suo camion là fuori,
con il motore acceso. Ti restavo fedele.
Suonavo Aretha, Marvin, il Reverendo Al.
Tu la baciavi mentre uscivate dalla porta.
Più tardi cercavo di suonare una musica mia,
facendo ronzare un circuito contro l’altro,
facendo andare su e giù la puntina.
Le bollicine nel mio sangue cantavano.
La mattina dopo sono venuti a ripararmi.

 

Traduzione: © 2014 Stefano Bortolussi

Gregory Corso

Ph. Dario Bellini


Getting to the Poem

I have lived by the grace of Jews and girls
I have nothing
and am not wanting

I write poems from the spirit
for the spirit
and have everything

A poet’s fate is by choice
I have chosen
and am well pleased

A drunk dreamer in reality
is an awful contradiction
Loved ones fall away from me
and I am become wanting

Self-diagnosis:
A penniless living legend
needs get the monies
or write more poems
or both
If you have a choice
between two things
and cannot decide
—take both
‘Tis not right for me to be wanting

I take out my pen
I pee white gold
And on the wall
I write thereon:
It was there

 

*

 

Arrivare a una poesia

Ho vissuto grazie agli Ebrei e alle ragazze
Non ho niente
e non mi manca niente

Scrivo poesie dallo spirito
per lo spirito
e ho tutto

Il destino di un poeta è una scelta
Io ho scelto
e sono soddisfatto

Un sognatore ubriaco nella realtà
è una contraddizione terribile
Le persone amate si staccano da me
e ora qualcosa mi manca

Autodiagnosi:
Una leggenda vivente senza un soldo
deve far quattrini
o scrivere altre poesie
o tutt’e due

Se ha una scelta
fra due cose
e non puoi deciderti
-prendile entrambe.
Non è giusto che qualcosa mi manchi

Tiro fuori la penna
Piscio oro bianco
E sul muro
ci scrivo sopra:
Era lì
sempre lì
minutamente contenuto
in una mano divaricata

Fuori
una rondine caduta
segna martedì
O mio cuore! finalmente
dopo tanto penare
me ne sto in pace
La guerra semisecolare
che combattei con fendenti
come un Boscimano africano
che infilza padroni delle terre
è finita

Io vivrò
e non saprò mai la mia morte

 

Rivista “Poesia” (n.231, ottobre 2008), traduzione di Massimo Bacigalupo

Sylvia Plath


I Am Vertical

But I would rather be horizontal.
I am not a tree with my root in the soil
Sucking up minerals and motherly love
So that each March I may gleam into leaf,
Nor am I the beauty of a garden bed
Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,
Unknowing I must soon unpetal.
Compared with me, a tree is immortal
And a flower-head not tall, but more startling,
And I want the one’s longevity and the other’s daring.

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,
The trees and the flowers have been strewing their cool odors.
I walk among them, but none of them are noticing.
Sometimes I think that when I am sleeping
I must most perfectly resemble them —
Thoughts gone dim.
It is more natural to me, lying down.
Then the sky and I are in open conversation,
And I shall be useful when I lie down finally:
Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me.

Collected Poems (Faber & Faber, 2002)

*
Io sono verticale
Ma vorrei
essere io piuttosto orizzontale.
Non sono un albero con le radici
nella terra che succhia i minerali
e l’amore materno per potere
risplendere di foglie ad ogni marzo,
né sono bella al modo di un giardino
che desta meraviglia, colorata
in modo straordinario, non sapendo
che dovrò presto perdere i miei petali.
Rispetto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore non è alta,
ma più stupefacente; ed io dell’uno
vorrei la lunga vita, e di quell’altra
la grande sfrontatezza io vorrei.

Questa notte alla luce delle stelle
infinitesimale hanno cosparso
freschi profumi gli alberi ed i fiori.
Li attraverso, ma non ci fanno caso.
A volte penso che dormendo io debba
rassomigliargli più perfettamente –
coi miei pensieri fiochi. Rimanere
coricata è per me più naturale.
Solo allora, col cielo in modo aperto
discorro, e sarò utile davvero
quando distesa resterò per sempre.
Quel dì mi toccheranno finalmente
gli alberi, e per me i fiori avranno tempo.

 

Traduzione in italiano di Luca Alvino

Anne Sexton


How we danced

The night of my cousin’s wedding
I wore blue.
I was nineteen
and we danced, Father, we orbited.
We moved like angels washing themselves.
We moved like two birds on fire.
Then we moved like the sea in a jar,
slower and slower.
The orchestra played
“Oh how we danced on the night we were wed”.
And you waltzed me like a lazy Susan
and we were dear,
very dear.
Now that you are laid out,
useless as a blind dog,
now that you no longer lurk,
the song rings in my head.
Pure oxygen was the champagne we drank
and clicked our glasses, one to one.
The champagne breathed like a skin diver
and the glasses were crystal and the bride
and groom gripped each other in sleep
like nineteen-thirty marathon dancers.
Mother was a belle and danced with twenty men.
You danced with me never saying a word.
Instead the serpent spoke as you held me close.
The serpent, that mocker, woke up and pressed against me
like a great god and we bent together
like two lonely swans.

*

Come ballavamo

La sera del matrimonio di mio cugino
ero vestita di blu.
Avevo diciannov’anni
e ballammo. Padre, andammo in orbita.
Un movimento ondulato
come d’angeli in vasca da bagno
l’ondeggiamento di due uccelli infuocati
l’ondeggío lento del mare in bottiglia,
sempre più lentamente ondulante.
L’orchestra suonava
“Come ballavamo la sera delle nostre nozze”,
nelle volute del valzer mi portavi
rigirandomi come la mensola in cucina,
ed eravamo cari,
tanto cari.
Ora che sei rigido
inutile come un cane cieco,
ora che non puoi più scrutarmi,
la canzone mi risuona nella testa.
Puro ossigeno fu lo champagne che bevemmo
e il tintinnio dei bicchieri nel nostro cin cin.
Lo champagne respirava come un sub
e i bicchieri furono cristallo e la sposa
e lo sposo avvinghiati nel sonno,
come una coppia alle vecchie maratone danzanti.
Mamma ballò con venti uomini, faceva la bellona.
Tu ballavi solo con me, senza dire una parola.
Ma il serpente parlò quando m’hai stretta più forte.
Quel serpente, beffardo
si destò al contatto
s’eresse come un grande dio.
E noi, l’una dell’altro
i colli reclini attorcigliammo
come due cigni solitari.

L’estrosa abbondanza (Crocetti, 1997), a cura di Lo Russo, Zuccato e Satta Centanin

Billy Collins

Ph. Gregg Matthews for The New York Times

Winter Syntax

A sentence starts out like a lone traveler
heading into a blizzard at midnight,
tilting into the wind, one arm shielding his face,
the tails of his thin coat flapping behind him.

There are easier ways of making sense,
the connoisseurship of gesture, for example.
You hold a girl’s face in your hands like a vase.
You lift a gun from the glove compartment
and toss it out the window into the desert heat.
These cool moments are blazing with silence.

The full moon makes sense. When a cloud crosses it
it becomes as eloquent as a bicycle leaning
outside a drugstore or a dog who sleeps all afternoon
in a corner of the couch.

Bare branches in winter are a form of writing.
The unclothed body is autobiography.
Every lake is a vowel, every island a noun.

But the traveler persists in his misery,
struggling all night through the deepening snow,
leaving a faint alphabet of bootprints
on the white hills and the white floors of valleys,
a message for field mice and passing crows.

At dawn he will spot the vine of smoke
rising from your chimney, and when he stands
before you shivering, draped in sparkling frost,
a smile will appear in the beard of icicles,
and the man will express a complete thought.

 

Sintassi d’inverno

Una frase parte come un viaggiatore solitario
che va verso una tormenta di neve a mezzanotte,
e lotta contro il vento, un braccio a schermare il volto
e i lembi del cappotto leggero che sbattono dietro di lui.

Ci sono modi più semplici per costruire senso,
la conoscenza dei gesti, per esempio.
Si tiene il volto di una ragazza fra le mani come un vaso.
Si prende una pistola dal cruscotto dell’auto
e la si getta dal finestrino nella calura del deserto.
Questi freddi momenti risplendono di silenzio.

La luna piena ha senso. Quando una nuvola le passa davanti
diventa eloquente quanto una bicicletta appoggiata
a una farmacia o un cane che dorme tutto il pomeriggio
in un angolo del divano.

I rami spogli d’inverno sono una forma di scrittura.
Il corpo svestito è un’autobiografia.
Ogni lago è una vocale, ogni isola un nome.

Ma il viaggiatore insiste nella sua fatica,
lotta per tutta la notte nella neve sempre più alta,
lascia un tenue alfabeto di orme
sulle bianche colline sui piani bianchi delle valli,
un messaggio ai topi di campagna e ai corvi di passaggio.

All’alba vedrà il rampicante di fumo
alzarsi dal tuo camino, e quando tremante
sarà davanti a te, rivestito di gelo che brilla,
fra la sua barba di ghiaccioli comparirà un sorriso,
e l’uomo esprimerà un pensiero compiuto.

 

A vela in solitaria intorno alla stanza (Fazi, 2013), trad. it. F. Nasi

Charles Simic

Ph. Dino Ignani

Clouds Gathering

It seemed the kind of life we wanted.
Wild strawberries and cream in the morning.
Sunlight in every room.
The two of us walking by the sea naked.

Some evenings, however, we found ourselves
Unsure of what comes next.
Like tragic actors in a theater on fire,
With birds circling over our heads,
The dark pines strangely still,
Each rock we stepped on bloodied by the sunset.

We were back on our terrace sipping wine.
Why always this hint of an unhappy ending?
Clouds of almost human appearance
Gathering on the horizon, but the rest lovely
With the air so mild and the sea untroubled.

The night suddenly upon us, a starless night.
You lighting a candle, carrying it naked
Into our bedroom and blowing it out quickly.
The dark pines and grasses strangely still.

 

*

 

E si ammassavano le nuvole

Sembrava il tipo di vita che volevamo.
Fragole di bosco e panna al mattino.
La luce del sole in ogni stanza.
E noi a camminare nudi sulla riva.

Qualche sera, però, ci siamo trovati
incerti sul domani.
Come attori tragici d’un teatro in fiamme,
con gli uccelli a ruotare in cerchio sulle nostre teste,
ed i pini scuri inspiegabilmente ancora lì fermi,
abbiamo calpestato ogni roccia insanguinata dal tramonto.

E poi di nuovo sul nostro terrazzo a sorseggiare vino.
Perché sempre questo senso di tragico finire?
Nuvole dalle sembianze quasi umane si ammassavano
all’orizzonte, mentre ogni cosa era piacevole
nell’aria mite ed il mare sereno.

Poi la notte ancora ci sorprese, una notte senza stelle.
Mentre tu accendevi una candela, nuda la portavi
in camera da letto ed in fretta la spegnevi,
ancora lì, inspiegabilmente fermi nel buio, i pini e l’erba.

 

Hotel insonnia (Adelphi, 2002), a cura di A. Molesini

6ª poesia più letta del 2022

di Adrienne Rich

Dediche

So che stai leggendo questa poesia
tardi, prima di lasciare il tuo ufficio
con l’unico lampione giallo e una finestra che rabbuia
nella spossatezza di un edificio dissolto nella quiete
quando l’ora di punta è da molto passata. So che stai leggendo
questa poesia in piedi, in una libreria lontano dall’oceano
in un giorno grigio agli inizi della primavera, deboli fiocchi sospinti
attraverso gli immensi spazi delle pianure intorno a te.
So che stai leggendo questa poesia
in una stanza in cui è accaduto troppo per poterlo sopportare,
spirali di lenzuola ristagnano sul letto
e la valigia aperta parla di fuga
ma non puoi andartene ora. So che stai leggendo questa poesia
mentre il metrò rallenta la corsa, prima di lanciarti su per le scale
verso un amore diverso
che la vita non ti ha mai concesso.
So che stai leggendo questa poesia alla luce
della televisione, dove scorrono sussulti di immagini mute,
mentre aspetti le ultime notizie sull’intifada.
So che stai leggendo questa poesia in una sala d’aspetto
di occhi incontrati che non si incontrano, di identità con estranei.
So che stai leggendo questa poesia sotto il neon
nella noia stanca dei giovani che sono esclusi,
che si escludono, troppo presto. So
che stai leggendo questa poesia con la tua vista indebolita:
le tue lenti spesse dilatano le lettere oltre ogni significato e tuttavia continui a leggere
perché anche l’alfabeto è prezioso.
So che stai leggendo questa poesia in cucina,
mentre riscaldi il latte, con un bambino che ti piange sulla spalla e un libro in mano,
perché la vita è breve e anche tu hai sete.
So che stai leggendo questa poesia che non è nella tua lingua:
di alcune parole non conosci il significato, mentre altre ti fanno continuare a leggere
e io voglio sapere quali sono.
So che stai leggendo questa poesia in attesa di udire qualcosa, divisa tra amarezza e speranza,
per poi tornare ai compiti che non puoi rifiutare.
So che stai leggendo questa poesia perché non c’è altro da leggere,
lì dove sei approdata, nuda come sei.

Cartografie del silenzio (Crocetti Editore, 2000), trad. it. M.L. Vezzali

Poesia pubblicata il 9 febbraio 2022