Rune Christiansen

Christiansen-Rune

Arancione

Il mondo è semplice, prendiamo l’autobus per un porto di scalo lontano dal mare, volendo vedere l’autunno riversarsi per l’ultima volta. Una chiatta trascina il tramonto verso di noi, e il vento sospinge foglie rosse, solleva nuvole. Giorno e notte sono semplici, il freddo denuda i suoni e li anima con un fil di ferro che costringe le cose. Tu non dici niente; sono queste, le tue profezie. Non so più la differenza tra la mano che afferra e la notte che viene scambiata, sarà la memoria che mi tradisce.

 

AntiCamera (La Finestra, 2015), a cura di N. Cagnone

Michael Strunge

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Nostro

Il nostro amore, una fluttuante poesia
di perfetta mancanza di forma
in cui nessuna regola ci lega le mani
quando cercano lo spirito dei nostri corpi
in cui diventiamo uno nel desiderio di contenere ed essere contenuti
e uno diventa due nel reciproco desiderio
in cui nessuna confusa nebbia ci frena gli occhi
quando cercano i corpi del nostro spirito
in cui diventiamo uno nel reciproco desiderio
e io/tu diventa due nel desiderio di essere contenuti e contenere
in cui nessun caos distorce i pensieri dei nostri sentimenti
quando cercano i pensieri dei nostri sentimenti
in cui diventiamo noi nel desiderio di contenere ed essere contenuti

l’uno dall’altra
in cui l’amore diventa una poesia.

La velocità della vita (Elliot, 2014), a cura di B. Berni

Inger Christensen

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Coperta dal profumo della piana
la fioritura nel marcio s’avvia,
nell’ombra, nell’intreccio, è un’insana
incolta, labiricintica idiozia

così farfalla cela col suo volo
d’esser legata al corpo dell’insetto,
crediamo che sia un fior che lascia il molo

come se quando bombice o civetta,
che vola superando quel colore,
a noi lanciasse un rebus che ci ometta

che tutto ciò che l’anima ha sperato
di là da tutto è simmetria e dolore
come atalanta, antiopa ed erato.

 

La valle delle farfalle (Donzelli, 2015), trad. it. B. Berni

Olav H. Hauge

Hauge, Olav H_None

La terra azzurra

Qui sono al sicuro, qui ci sono querce intorno ai muri,
qui scintilla lo stretto tra monti corrosi dal mare.
Se me ne sto in piedi alla finestra
le querce immense hanno
una profonda tonalità oleosa
come un dipinto antico,
sul cielo di smalto azzurro
nubi ritardatarie
si rincorrono dal mare.

Querce nel sole d’autunno!
Terra azzurra, terra di monti, terra di mare
ed ere alle mie spalle
in una festa di colori
e ardore.

Oggi ci sono freddo e fiocchi di neve nell’aria,
i rami nudi si protendono come artigli
verso il caldo e l’ultimo ozono.
Mi inoltro nella terra azzurra
sotto le foglie che cadono.
E un giorno sarà spoglio Yggdrasil.

 

La terra azzurra (Crocetti, 2008), trad. it. F. Ferrari

Yahya Hassan

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INFANZIA

CINQUE FIGLI IN FILA E UN PADRE CON LA MAZZA
POLIPIANTO E UNA POZZA DI PISCIO
SI TIRA FUORI LA MANO A TURNO
È QUESTIONE DI PREVEDIBILITÀ
QUEL RUMORE QUANDO ARRIVANO I COLPI
LA SORELLA CHE SALTA VELOCE
SU UN PIEDE POI SULL’ALTRO
IL PISCIO È UNA CASCATA SULLA GAMBA
PRIMA FUORI UNA MANO POI L’ALTRA
SE PASSA TROPPO TEMPO I COLPI VANNO A CASO
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO 30 O 40 A VOLTE 50
E UN ULTIMO COLPO SUL CULO USCENDO DALLA PORTA
PRENDE IL FRATELLO PER LE SPALLE LO RADDRIZZA
CONTINUA A COLPIRE E CONTARE
ABBASSO LO SGUARDO E ASPETTO IL MIO TURNO
MAMMA ROMPE PIATTI PER LE SCALE
E INTANTO AL JAZEERA TRASMETTE
BULLDOZER IPERCINETICI E MEMBRA ARRABBIATE
LA STRISCIA DI GAZA SOTTO IL SOLE
LE BANDIERE CHE VENGONO BRUCIATE
SE UN SIONISTA NON RICONOSCE LA NOSTRA ESISTENZA
SE POI DAVVERO ESISTIAMO
QUANDO SINGHIOZZIAMO ANGOSCIA E DOLORE
QUANDO BOCCHEGGIAMO IN CERCA D’ARIA O DI SENSO
A SCUOLA NON SI PUÒ PARLARE ARABO
A CASA NON SI PUÒ PARLARE DANESE
UN COLPO UN GRIDO UN NUMERO

 

YAHYA HASSAN (Rizzoli, 2014), trad. it. B. Berni

Jacques Werup

Jacques Werup

 

Il lavoro

Ci piace quel presagio
di morte che ci coglie
nel viaggio verso casa dal lavoro.

Il volto allora muta: questo si vede
dal mio volto ugualmente cambiato
che d’un tratto se ne sta più comodo

quando penso: anch’io, fra poco.
Una volta in una grande città ne parlai
con uno che visse per poco ancora.

Attraversammo una grande piazza,
fra resti di penne di piccioni
i nostri dolori lasciarono dei segni

sul terreno umido
alla fine del quale le case
sembravano scogliere di pioggia.

Nel separarci ci sembrò di essere molti
che tornavano a casa, ognuno alla sua,
dopo un lungo discorso. Il tribuno incomprensibile.

Il treno mi prese. Nel tempo sprofondò la città.
E ora quando dormo dopo il lavoro
vedo quella piazza.

E quando non so più chi vede la piazza
so che sto dormendo.
Forse è così morire, o forse è più come il lavoro.

 

da Antologia della poesia svedese contemporanea (Crocetti, 1996), a cura di H. Sanson

Henrik Nordbrandt

Henrik_Nordbrandt

 

Cominciai presto, a grande distanza,
quando le mie parole erano ancora solo parole.
A ora di pranzo erano diventate pietre,
quando le pietre sembravano troppo leggere
e i miei passi continuavano la memoria
che non riusciva più a tenergli dietro.

La strada era ancora al suo inizio
più incerta a ogni istante
che superava le stesse grigie rocce.
Venni scoperto dalla mia ombra,
quando l’ombra scomparve sotto di me
ma non abbastanza a lungo da fermare il mio discorso.

Ciò che dicevo non riusciva più
a sopportare il peso del tempo che passava.
Perciò avanzavo camminando all’indietro.
Lancio dopo lancio le pietre mi raccoglievano
dal paesaggio sul quale cadevano.
Il senso di tutto divenne il suono

della mia mezza impresa. Non andava.
Non era più possibile camminare
laddove l’incedere era ascoltare la propria fine.
Laddove le pietre pronunciavano forte il proprio peso
e ogni parola soppesava la sua particolare pietra
man mano che le raccoglievo.

Così abbiamo costruito la Casa di Dio.

 

La casa di Dio (Kolibris, 2014)