Innokentij Fëdorovič Annenskij


Io sono al fondo, sono un triste frantume,
sopra di me l’acqua verdeggia.
Ma non vi sono strade per uscire
dalle pesanti tenebre di vetro.

Rammento il cielo, i zigzag del volo,
il bianco marmo con la sua vasca,
rammento il fumo degli zampilli,
tempestato di azzurro fuoco…

Se debbo credere ai bisbigli di delirio
che angosciano la mia detestabile quiete,
lassú per me si strugge Andromeda
dal bianco braccio mutilato.

Poesia russa del Novecento (Guanda, 1954), trad. it. A. M. Ripellino

Iosif Brodskij


Non sono uscito di senno, ma sono stanco dell’estate.
Cerchi nel cassettone una camicia, e il giorno è perso.
Venga l’inverno e copra tutto, presto,
le città e le genti e, innanzitutto, il verde.
Io dormirò vestito, sfoglierò libri in prestito,
finché non se ne andrà per la sua strada l’anno,
quel che resta,
come il cane che sfugge al cieco e che traversa
lungo le strisce pedonali. È libertà
se scordi il patronimico del capo,
se è dolce la tua bocca più della chalvà
di Shiraz e se, col cervello strizzato
come il corno di un capro,
dall’occhio azzurro nessuna stilla scenderà.

Poesie (Adelphi, 1986), a cura di G. Buttafava

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko


Non esistono al mondo uomini non interessanti.
I loro destini sono come le storie dei pianeti.

Ognuno ha la sua particolarità
e non ha un pianeta che gli sia simile.

E se uno viveva inosservato
e amava questa sua insignificanza,

proprio per la sua insignificanza
egli era interessante tra gli uomini.

Ognuno ha il suo segreto mondo personale.
In quel mondo c’è l’attimo felice.

C’è in quel mondo l’ora più terribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.

Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,

e il primo bacio e la prima battaglia…
Tutto questo egli porta con sé.

Rimangono certo i libri, i ponti,
le macchine, le tele dei pittori.

Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.

È la legge d’un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi.

Ricordiamo gli uomini, terrestri e peccatori,
ma che sapevamo in fondo di loro?

Che sappiamo dei fratelli nostri, degli amici?
Di colei che sola ci appartiene?

E del nostro stesso padre
tutto sapendo non sappiamo nulla.

Gli uomini se ne vanno… e non tornano più.
Non risorgono i loro mondi segreti.

E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.

Poesie (Newton Compton, 1972), trad. it. di Sandra Grotoff

Borís Pasternàk

Definizione della poesia

È un fischio che si estende acuto d’improvviso,
è lo scricchiolio di ghiacci soffocati,
è la notte che fa intirizzire la foglia,
il duello di due usignoli.
È il tonfo soave del pisello,
è l’universo in lacrime in un guscio,
è Figaro – dal podio e dai flauti –
che si frange come grandine sull’aiuola.
È quel che la notte deve ricercare
Sul fondo oscuro delle vasche,
e la stella porgere al vivaio
coi palmi umidi e tremanti.
Più piatta di una tavola è l’afa.
Il firmamento è travolto dall’ontano,
toccherebbe alle stelle esplodere in risate.
Ma l’universo è un luogo spento.

Poesie (Einaudi, 1971)

Osip Mandel’štam


Mezzanotte a Mosca. Sfarzosa l’estate buddista.
A passi serrati si separano strade in stretti stivali di ferro.
Malati di nero vaiolo, se la godono gli anelli dei boulevard.
Neppure di notte Mosca trova pace,
se la quiete da sotto gli zoccoli fugge…
Tu diresti: da qualche parte là al poligono
due clown si sono installati, Bim e Bom,
e sono scattati pettinini e martelli,
ora s’ode un’armonica a bocca,
ora un infantile pianoforte di latte:
do re mi fa
e sol fa mi re do.

Da giovane solevo un tempo
uscire col soprabito cerato
nel diramarsi ampio dei boulevard
dove le gambine a fuscello di una zingarella si dibattevano nella gonna lunga,
dove passeggiava l’orso agli arresti –
menscevico eterno della natura stessa.
E a piú non posso odorava di lauroceraso…
Dove vai ora? Niente lauri, né ciliegie…

Alzerò il pesino a bottiglia
dell’orologio in cucina che va di gran carriera.
Quanto è ruvido il tempo, eppure
amo afferrarlo per la coda –
della sua fuga non ha colpa alcuna
ma è lo stesso un truffaldino…

Bada bene, non chiedere, non lagnarti! Shhh!
Non frignare –
per cosa i raznočincy
consumarono screpolati stivali, perché ora li tradissi?
Moriremo come fanti,
ma non celebreremo il furto rapace, né il lavoro a giornata, né la menzogna.

Ci resta la maglia lisa del nostro plaid scozzese.
Con questa bandiera di guerra mi coprirai, quando sarò morto.
Beviamo, amica mia, al nostro dolore d’orzo,
beviamo fino all’ultimo sorso…

Finito il fitto lavoro dei cinema,
fiaccate ne escono le folle
come dopo il cloroformio – quanto sono venose,
e bisognose d’ossigeno…
È tempo che lo sappiate: sono anch’io un contemporaneo,
un uomo dell’epoca di Moscatessile, –
guardate com’è informe la mia giacca,
e come so camminare e parlare!
Provate a strapparmi dal secolo, –
lo giuro: vi ci romperete il collo!

Io parlo con l’epoca, ma possibile
che abbia un’anima di canapa,
e da noi si sia piazzata
come un rugoso animaletto in un tempio tibetano:
una grattatina – e giú nella vasca di zinco.
«Mariuccia, facci ancora il tuo numero da circo!»
È forse un oltraggio – ma dovete capirlo:
c’è una lussuria del lavoro, e ci scorre nel sangue.

Albeggia. Frusciano i giardini come un verde telegrafo.
Da Rembrandt va in visita Raffaello.
Lui e Mozart stravedono per Mosca, –
per il suo occhio castano, per l’ebbrezza di passero.
E come posta pneumatica
o gelatina di medusa del Mar Nero
di appartamento in appartamento passano
spifferi in un’aerea catena di montaggio,
come studenti perdigiorno a maggio.

Quaderni di Mosca (Einaudi, 2021), a cura di P. Napolitano e R. Raskina

Aleksandr S. Puškin


L’uva

Non starò a rimpiangere le rose
Appassite a una lieve primavera;
Mi è cara anche l’uva sui tralci
A filari maturata su un pendìo.
Bellezza della mia fertile valle,
Gioia d’autunno dorato,
Affusolato e diafano,
Come le dita di una tenera fanciulla.

Opere (Mondadori, 1998), trad. it. Giovanni Giudici e Giovanna Spendel

Anna Achmatova


Ho imparato a vivere con semplicità, saggezza,
A guardare il cielo e pregare il Signore,
E prima di sera vagare lungamente
Per stancare un’inutile angoscia.

Quando fruscia nel burrone la bardana
E il grappolo del sorbo giallo-rosso appassisce,
Compongo versi pieni di gaiezza
Sulla vita caduca, caduca e bella.

Ritorno. Mi lecca la mano un piumoso
Gattino, fa le fusa più lusinghevole,
E un lume vivo si accende
Sulla torretta alla segheria del lago.

Solo di rado rompe la quiete il grido
Della cicogna che si posa sul tetto.
– E se tu picchi allora alla mia porta,
Mi pare che nemmeno potrò udire.

Rosario, 1914, traduzione di Bruno Carnevali e Paolo Galvagni

Sergej Georgievič Stratanovskij


Dio è nelle cose di ogni giorno:
nei magazzini d’ortofrutta, nelle fabbriche
nel caos degli incontri calcistici
nel boccale di birra di un chiosco
nella noia, nelle lacrime scorate
nelle lettere di un’offesa amorosa
nei recessi delle querce bibliche
nel tremito della carne esangue di paura
l’umile colcosiano osserva
la Sua tenda di tessuto fine
nello studio ha impastato i Suoi colori
un pittore dalla vista acuta
chi è Costui? Un Padre dai tanti volti
dentro occhiute cattedrali
o un bambino che gioca
con una nuova stella del mattino?

 

Buio Diurno (Einaudi, 2009), a cura di A. Niero

Aleksandr Blok


Tutto morirà sulla terra – e la madre, e la gioventù,
La moglie tradirà, e scomparirà l’amico,
Ma tu impara ad assaporare un’altra dolcezza,
Guardando al freddo circolo polare.

Prendi la tua barca, arriva al polo lontano
Su pareti di ghiaccio – e sommesso dimentica
Coma là si amava, si periva e si lottava…
E dimentica l’antica terra delle passioni.

E ai sussulti del freddo lento
Abitua l’anima stanca
Affinché qui non le occorra niente
Quando da là sgorgheranno i raggi.

 

7 settembre 1909

Rivista “Poesia” (n. 60, marzo 1993), traduzione di Paolo Galvagni

Anna Achmatova


Dedica

Davanti a questo dolore si curvano monti,
Non scorre un gran fiume,
Ma sono solide le serrature del carcere,
E dietro di esse i “covi dei forzati”,
E una malinconia di morte.
Per quanto alita un vento fresco,
Per qualcuno si addolcisce il tramonto,
Non sappiamo, siamo ovunque le stesse,
Sentiamo solo l’odioso scricchiolio delle chiavi
E i passi pesanti dei soldati.
Ci alzavamo come una messa mattutina,
Camminavamo per la capitale inselvatichita,
Là ci incontravamo, più esanimi dei morti,
Il sole più basso, e la Neva più nebbiosa ,
Ma la speranza canta sempre in lontananza.
La condanna…E subito scorrono le lacrime,
Da tutti ormai allontanata,
La vita è come strappata dolorosamente dal cuore,
Gettata brutalmente supina,
Ma va avanti… Barcolla… Sola…
Dove sono ora le amiche occasionali
Dei miei due anni infernali?
Cosa scorgono nelle nevi siberiane?
Cosa intravedono nel disco della luna?
Mando loro il mio addio.

Marzo 1940

Traduzione di Paolo Galvagni, “Rivista Poesia” n. 57, dicembre 1992