Giuseppe Conte


Lettera a Giuseppina Biondo

Anch’io la ringrazio cara Giuseppina
Biondo per avermi ringraziato come uno
dei primi lettori “ufficiali” del suo
Lingua di mezzo:
ma creda, io un tipo tanto ufficiale
non sono, neppure come lettore.
Leggo talvolta in fretta, senza cuore,
saltando pagine, fiutando appena
quando intuisco la lagna, la tiritera,
l’ineffabilità programmata
e un’anima narcisa e piccolina.
Non è il suo caso, cara Giuseppina
Biondo. Il suo libro l’ho letto
tre volte, l’ho appuntato con la biro
scarabocchiandolo di asterischi
di sottolineature tremolanti e di punti
interrogativi. L’ho letto e riletto
immerso nella vita e nel linguaggio, sporcato
dalla mia angoscia e dalla mia gioia
(oh i poeti che non puntano alla gioia,
come posso credere al loro dolore?)
dal mio pansessualismo, dalla mia
sacra erotomania
di cui non mi pento né vergogno,
no davvero non mi sogno
di rinnegare il da tutti incompreso
Sesso e apocalisse a Istanbul
o poesie come quell’apocrifo
Cantico dei Cantici ipersensuale
che comincia: “Vuoi venire con me
sino alle vigne di Noè?”
Lei ha scritto un libro fresco, magnifica-
mente giovane e ambiguo e nitido e cruciale.
È un libro d’amore che fa mondo
dove si sente la voce di Catullo sullo sfondo
con sovrana chiarezza latina,
non un libro di lirismo tradizionale, niente
di effusivo, piangente, oracolare
un libro di baci, di sguardi, di brame
ambigue e fluide, sapiente e innocente,
dove lingua di mezzo è certo in primis
quella che introduce la schwa
a saldare vecchi conti con il maschilismo
della grammatica, per carità,
ma dove lingua di mezzo finalmente
è anche la lingua che uscendo da una bocca
si mescola a un’altra lingua, nell’atto più
torbido e lieve e intimo sulla via dell’eros.
“Da grande vorrei rubare baci”
è un suo strepitoso proposito monello,
“se oggi riuscissi a baciare le labbra”
non c’è per un umano sogno più bello.
C’était le jour béni de ton premier baiser,
ricorda Mallarmé?
Come dare di lei Giuseppina una definizione:
principessa, maschiaccio, una che in ovulazione
beve tanta acqua, una cui piace sorridere
maliziosamente (cosa che mi sorprende,
io sul suo volto avevo sempre visto
una infantile e sana
fiera innocenza siciliana).
È lei che ha inventato la “collaudatrice
di labbra”, figura metaforica straordinaria,
con un affondo etimologico sul rapporto
con laudare, giusto per mantenere
alto il livello di auto consapevolezza del suo
nuovo linguaggio. Fatto anche di
aule di scuola, studenti, metropoli,
e comunicazione social,
forse ormai inevitabili?
Persefone è giustamente una ragazza di oggi
ed ha un caschetto castano ed è permalosa,
(epifania mitomodernista bella e golosa)
Whitman nel suo libro appare gigante,
letto in tre traduzioni tra le tante
di cui almeno una spero sia la mia.
E la schwa, la donna dello schermo,
il sapiente espediente, il tributo
alla sessualità fluida del tempo
che ha acceso – così mi ha scritto
lei e mi hanno detto giovani poeti
un po’ platonicamente innamorati
di Joséphine – intorno al libro tanta polemica.
Ma perché? La schwa in mano a Giuseppina
non è mica così ideologica e brutale
è aerea, giocosa, tormentosa, bambina,
non una rivendicazione ma una pratica
comunicativa e non priva di astuzie
e di garbo poetico, ludico, festoso:
“tutt*, ma davvero tutt*
guardavano il cellulare”
ragazze e ragazzi, senza eccezione
(mi scusi, non ho la e rovesciata
o non la trovo sulla mia tastiera
mentre scrivo ascoltando in cuffia
Radio swiss jazz, Speak to me of you
di Freddy Cole in questo preciso momento).
Ho provato a leggere ad alta voce
mi è venuto fuori un mezzo accento
abruzzese o pugliese che non mi riguarda,
più da coglione
che da Checco Zalone.
Oh Giuseppina Biondo, autrice
di un libro così nuovo e importante
Oh Giuseppina Biondo, le parolacce sono tante
e per mia esperienza le dicono * ragazz*
e le diciamo tutti, e che cazz*
e anche a me piacciono in letteratura
ma clamorose, precise, gioiose
per intenderci alla Henry Miller
non rastremate e rivendicative
come quelle che usano Valduga e Nove.
Ma il trash no, quello no, lei, proprio lei
così elegantemente sospesa sulla neutralità
della lingua, sulla fluidità del sesso,
il trash all’italiana no, la prego, mi ci manca
più Tommaso Labranca.
E se trash deve essere, che sia
quello del primo film della trilogia
di Paul Morrisey prodotta da Andy Wharol,
Trash, seguito da Flesh e Heat
in cui giganteggia il non attore
e tutto cazzo Joe Dallesandro,
da riscoprire.
Lei Giuseppina, non si spaventi.
Vada per la sua strada contro i venti
delle polemiche e contro la calma piatta
del presente. Sia oscura, solare, ambigua
e chiara. Scriva quello che sente.
Sorrida ancora maliziosamente!
Scriva d’amore, non c’è mica tanto altro
su cui scrivere al mondo.
“Ogni verso è un lungo precipitare.
E io voglio amare, amare, amare”.
Così, con queste urla rimate
lei che è capace di assonanze sofisticate
come quella tra “snitcha” e “addice”.
Continui così, glielo dice
in questa lettera del tutto innocente
il vecchio barbuto Doktor Conte
suo lettore non ufficiale
che l’amore per la poesia
non l’ha tradito mai.
Scriva ancora così:
“Innamorati. Innamorati, dai”.

Inedito

Valentina Furlotti

Ph. g&m

Assorbo la tua assenza
come gli oggetti della casa.
Sei partito e li hai lasciati
senza tue notizie. Nulla sanno
i muri, l’accappatoio; l’abat-jour
scherma fantasmi e il latte
attende rancido in frigo.
Per incuria una noce
si spacca nel petto. Nella madia,
indifferenti, le tarme alimentari.

Fosforescenze (Interno Libri Edizioni, 2023)

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Mario Giampaolo


Pico

Mesi steso su Roma morta
ogni giorno e di nuovo,
mare vuoto di fortune.

Andare via con una vita a strascico
e la cardiologia elementare
a gonfiare le vele.

Scegliersi un’isola minore
sala d’attesa a cielo aperto,
battiti irregolari.

Ci ho scoperto un cristianesimo
che mi tiene compagnia e m’ha svelato
il mito barbaro che ho avuto di te.

Altrove cresce un senso di festa,
qui si bevono pomeriggi corretti col vero
e io snocciolo ancora frammenti di rara devozione

Il potere
che hai
di cambiare le cose

minuscola età dell’oro
Il tuo sangue
di ieri notte
stamattina
sull’angolo
della mia bocca.

 

Inedito

Giovanna Rosadini

Ph. Dino Ignani

Ti cerco nella scucitura del tempo
che mi apre questo libro, tuo,
mio, in questo dialogo di parole
per interposta persona in cui
cerchiamo conferma alle nostre
intuizioni, quel sostare inatteso
dello sguardo che veste un presagio,
sentire di esserci ancora, sentirsi
ancora accolti nell’interezza di ciò
che siamo, anime fragili scivolate
nel burrone della vita e creature
animate da un fremito di luce,
nel tocco di una grazia
che ritorna e ci conduce.

Inedito

Francesca Serragnoli

Ph. Daniele Ferroni

Camera 9

Si sono accorti della mia disperazione
loro lo sguardo
cioè niente

lo sguardo di ognuno
che non sa chi è l’altro

quella bifora gelata

quel portone fermato
dal legnetto delle tue mani

l’arcata viva della tua schiena
i fiori di plastica
davanti a Sant’Antonio

loro che non sanno chi è l’altro
che accendono una candela
sfregandosi i capelli

loro l’ospedale dei guardati
gli intubati di Dio

in quel viso sgangherato
legato a una cordicella
qualcuno getta
un pugno di semi
e li chiama con un fischio.

Non è mai notte non è mai giorno (Interno Poesia Editore, 2023)

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Marina Dora Martino

Ph. Pietro Vettore

dopo il crollo della casa
ti ho alzato il vestito
ho visto l’aurora

che le tue gonnelle di spine
mi siano d’ispirazione

spina punta dal dito
mai in pace col piacere
mai un letto dove riporre
cappio e ombra

nei rovi la mia unica chiesa
ho lasciato tutti gli averi
che i tuoi chiodi mi facciano sposa

sotto la bocca sporca
l’abside di albaspina
sotto, la rovina

Inedito

Carlo Crosato

Al di qua del graffio che
definisce e distingue i nostri corpi
ho allargato le braccia il più possibile
perché mi sorprendessi
non in atteggiamento di resa
ma del tutto disarmato
inerme e indifeso
come è chi sa di non doversi difendere
come chi vuole avvolgerti in un abbraccio
senza con questo catturarti
e ti stringa consapevole del rischio
dell’esplosione delle tue reazioni acuminate.
Privo di difesa perché tu possa
colpire senza temere vendetta
perché tu possa far vibrare l’aria
con grida da mito antico
senza subire l’eco riflessa
dalla mia scarsa estensione corporea.

Strategie di salvezza (Interno Libri Edizioni, 2023)

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Guido Cupani

Introduzione al pollaio

Le vostre ali ricordano
di quando sapevano volare?

Hai sbagliato domanda.
Io comincio da questa penna
e finisco in quest’altra.
Le mie compagne mica le conosco.

Dalle nostre parti è forte
l’urgenza a comunicare.

E sia, non posso escludere
che l’universo abbia forma d’uovo
e proprio al centro
una promessa di tuorlo
perfettamente tonda

Una risposta degna
di chi tiene il becco fisso
lasciando che il corpo si muova attorno

Credete che non abbiamo anche noi
un nostro Einstein
un nostro Spinoza?
Li conoscereste se sapeste
leggere lo zampettio nel guano

Vuol dire che abbiamo cercato
forme di vita intelligente
nel luogo sbagliato?

La mia crestina sfiora
il tetto di lamiera
Non conosco altro vertice
della creazione e non so come
come
come

co co co
guarda un po’ che cos’ho trovato qui

Inedito

Giovanna Cristina Vivinetto

Autoscatto

I papiri curvano la luce del pomeriggio,
fanno come un muro all’orizzonte.
Un albero pare buchi l’acqua
salendo dalle profondità sommerse.
A lato una rana è colta nell’atto
di saltare in uno spazio ignoto – più in là
una biscia si confonde nel giuncheto.

Non si vedono ma riempiono l’aria
le cicale, i grilli – questa generazione
invisibile spuntata dalla corteccia.
Poco a destra, un lembo di terra nera
trasuda ancora un fumo vegetale.
E poi riflessi moltiplicati, nuvole cresciute
dentro l’acqua – un silenzio sparpagliato
sull’erba come dopo una fuga.

Eppure la fotografia non rende
giustizia. Nulla dice di me in quel momento
sprofondata nello stagno, smarrita
dentro la prospettiva – per essere
andata in cerca di una me scivolata
nel fondale – una me attonita, conchiglia.

Io già anfibia, frammista
alle rocce, ai verdognoli girini,
alla sera minerale addensata sulla nuca.
Io così incastrata nel paesaggio
da apparire indistinguibile – annidata
nel respiro delle creature marine,
nel gesto di una gioia incompiuta

– io afferrata dalle caviglie, io di nuovo umana
quel giorno a me stessa
a me solo sopravvissuta.

Inedito