Vittorio Sereni

Ph. Archivio Sereni

Settembre

Già l’olea fragrante nei giardini
d’amarezza ci punge: il lago un poco
si ritira da noi, scopre una spiaggia
d’aride cose,
di remi infranti, di reti strappate.
E il vento che illumina le vigne
già volge ai giorni fermi queste plaghe
da una dubbiosa brulicante estate.

Nella morte già certa
cammineremo con più coraggio,
andremo a lento guado coi cani
nell’onda che rotola minuta.

Tutte le poesie (Mondadori, 2023)

Anna Achmatova

Achmatova
Dio non ha pietà di mietitori e ortolani,
cadono sghembe piogge tintinnando,
screziano i larghi manti alle acque
che già specchiavano il cielo.

Prati e campi in un regno subacqueo,
cantano, cantano liberi rivi,
sui rami enfiati scoppiano le prugne
e le erbe, piegate, imputridiscono.

E attraverso la fitta grata d’acqua
scorgo il tuo caro viso,
il parco tacito, il chiosco cinese
e la tonda veranda innanzi casa.

 

La corsa del tempo (Einaudi, 1992) a cura di M. Colucci

Hans Magnus Enzensberger


Sovente ho la sensazione (bruciante,
oscura, indefinibile ecc.)
che l’Io non sia un dato di fatto
bensì una sensazione
di cui non mi libero.

La coltivo, le do spazio,
la corrispondo, di caso in caso.
Ma è solo una delle tante.

Le sensazioni si possono contare all’infinito,
cioè si lasciano sostanzialmente numerare,
fino alla noia.

Il numero della gelosia
è manifestamente il sette.
Anche la paura è un numero primo.
E ho la vaga sensazione
che l’umiliazione
rechi sulla fronte il 188 −
un numero senza qualità.
Anche la sensazione di essere numerato
suppongo sia da un pezzo numerata,
però: a che pro e da chi?

La sublime sensazione dell’ira
abita nel Grand Hotel di Hilbert
una stanza diversa
dalla sensazione
di essere superiori all’ira.

E solo chi è capace di darsi
alla sensazione astratta
dell’astratto sa
che questa in certe notti particolarmente chiare
suole assumere il valore di √− 1.

Poi mi corrono di nuovo i brividi
per la schiena, la sensazione
di essere un pacco,
quella non sensibile sensazione di intorpidimento
che sembra faccia scoppiare la lingua
dopo un’iniezione
quando va a saggiare un dente,
o il disagio
col suo penetrante sapore di piombo,
la potente sensazione d’impotenza
che tira irresistibilmente verso lo zero,
e la falsa sensazione
della vera emozione
con la sua orribile frazione continua.

Poi mi riempie
un’intersezione di sentimenti confusi,
colpa, estraneità, benessere, perdita,
tutte in una volta.

Soltanto alla suprema della sensazioni
l’Io sarebbe impari.
Invece di cercare di trascendere
con limite ∞,
preferisce lasciarsi sopraffare
per un minuto
dalla scossa dell’acqua gelido-bollente
sotto la doccia, il cui numero
nessuno ha ancora decifrato.

 

Chiosco (Einaudi, 2013) trad. it. Anna Maria Carpi

Dietrich Bonhoeffer


Chi sono io?

Chi sono io? Mi dicon spesso
che esco dalla mia cella

calmo e lieto e saldo,

come il padrone dal suo castello.

Chi sono io? Mi dicon spesso
che parlo alle mie guardie
libero e amichevole e chiaro,
come fossi io a comandare.

Chi sono io? Mi dicon anche

che sopporto i giorni della sventura
impavido e sorridente e fiero,

come chi è avvezzo alla vittoria.

Io, in realtà, son ciò che gli altri dicono di me?
O sono solo ciò che so io di me stesso?
Inquieto, nostalgico,
malato come un uccello in gabbia
bramoso d’un respiro vivo
come mi strozzassero la gola,
affamato di colori, di fiori,
di cinguettii,
assetato di parole buone,
di presenza umana,

tremante di collera davanti all’arbitrio
e alla più meschina umiliazione,
roso per l’attesa di grandi cose,
impotente e preoccupato per l’amico
ad infinita distanza,
stanco e vuoto per pregare,
per pensare, per creare,
esausto e pronto a prendere congedo da tutto?

Chi sono io? Questo o quello?

Oggi uno, domani un altro?

Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini
un simulatore
e davanti a me stesso
uno spregevole, querulo rottame?
O ciò che in me c’è ancora rassomiglia
all’esercito sconfitto,
che si ritira in disordine
di fronte a una battaglia già vinta?

Chi sono io? Domandare solitario
che mi irride.
Chiunque io sia, Tu mi conosci,
Tuo sono io, o Dio!

Dietrich Bonhoeffer, Poesie (Marietti1820, 2023)

Sylvia Plath

Edge

The woman is perfected.
Her dead

Body wears the smile of accomplishment,
The illusion of a Greek necessity

Flows in the scrolls of her toga,
Her bare

Feet seem to be saying:
We have come so far, it is over.

Each dead child coiled, a white serpent,
One at each little

Pitcher of milk, now empty.
She has folded

Them back into her body as petals
Of a rose close when the garden

Stiffens and odors bleed
From the sweet, deep throats of the night flower.

The moon has nothing to be sad about,
Staring from her hood of bone.

She is used to this sort of thing.
Her blacks crackle and drag.

Collected Poems (Faber & Faber, 2002)

*

Orlo

La donna è compiuta.
Il suo corpo

morto ha il sorriso della perfezione.
L’illusione di una necessità greca

scorre nelle volute della sua toga,
i suoi nudi

piedi sembrano dire:
siam giunti fino a qui, ora è finita.

Ogni bambino morto rannicchiato,
serpente bianco, accanto alla sua piccola

brocca di latte, adesso vuota.
Li ha ella ripiegati

di nuovo nel suo corpo come petali
di rosa che si chiudono, se l’orto

si irrigidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.

La luna non ha nulla da esser triste,
guardando giù dal suo cappuccio d’osso.

Conosce bene tutte queste cose.
Le sue macchie nere frusciano e si stirano.

Traduzione di Luca Alvino

Ezra Pound


The Song

Love thou thy dream
All base love scorning,
Love thou the wind
And here take warning
That dreams alone can truly be,
For ’tis in dream I come to thee.

 

*

 

Canzone

Ama il tuo sogno
ogni inferiore amore disprezzando,
ama il vento
ed accorgiti qui
che solo i sogni possono esistere veramente,
perciò in sogno a raggiungerti m’avvio.

 

Iconografia italiana di Ezra Pound (All’Insegna del Pesce d’Oro, 1955)

Innokentij Fëdorovič Annenskij


Io sono al fondo, sono un triste frantume,
sopra di me l’acqua verdeggia.
Ma non vi sono strade per uscire
dalle pesanti tenebre di vetro.

Rammento il cielo, i zigzag del volo,
il bianco marmo con la sua vasca,
rammento il fumo degli zampilli,
tempestato di azzurro fuoco…

Se debbo credere ai bisbigli di delirio
che angosciano la mia detestabile quiete,
lassú per me si strugge Andromeda
dal bianco braccio mutilato.

Poesia russa del Novecento (Guanda, 1954), trad. it. A. M. Ripellino

Margherita Guidacci


Non a te appartengo, sebbene nel cavo
Della tua mano ora riposi, viandante,
Né alla sabbia da cui mi raccogliesti
E dove giacqui lungamente, prima
Che al tuo sguardo si offrisse la mia forma mirabile.
Io compagna d’agili pesci e d’alghe
Ebbi vita dal grembo delle libere onde.
E non odio né oblio ma l’amara tempesta me ne divise.
Perciò si duole in me l’antica patria e rimormora
Assiduamente e ne sospira la mia anima marina,
Mentre tu reggi il mio segreto sulla tua palma
E stupito vi pieghi il tuo orecchio straniero.

Le poesie (Le lettere, 2020)

Philippe Jaccottet


Adesso so che non possiedo nulla,
neppure l’oro delle foglie fradicie,
né questi giorni che a gran colpi d’ala
vanno da ieri a domani, rimpatriano.

Lei fu con loro, pallida emigrante,
tenue beltà coi suoi segreti vani,
brumosa. E ora condotta certamente
via, tra i boschi piovosi. Come prima

eccomi in faccia a un irreale inverno,
ricanta il ciuffolotto, unica voce
che insiste, come l’edera. Ma il senso

chi lo puo dire? E la salute scema,
simile oltre la nebbia al fuoco breve
che un vento glaciale smorza… Ed è già tardi.

Rivista “Poesia” (n. 233 Dicembre 2008), a cura di Fabio Pusterla

Iosif Brodskij


Non sono uscito di senno, ma sono stanco dell’estate.
Cerchi nel cassettone una camicia, e il giorno è perso.
Venga l’inverno e copra tutto, presto,
le città e le genti e, innanzitutto, il verde.
Io dormirò vestito, sfoglierò libri in prestito,
finché non se ne andrà per la sua strada l’anno,
quel che resta,
come il cane che sfugge al cieco e che traversa
lungo le strisce pedonali. È libertà
se scordi il patronimico del capo,
se è dolce la tua bocca più della chalvà
di Shiraz e se, col cervello strizzato
come il corno di un capro,
dall’occhio azzurro nessuna stilla scenderà.

Poesie (Adelphi, 1986), a cura di G. Buttafava