Tom Pearson


I. A Foreign Stillness

i. Fragments of Icarus

Let god folly and father fracture matter
Not, this immortalization, for us, a curse,
Constellations for others to navigate
By what to avoid.

There was a great voice in my head the morning
After my death that woke me from sleep, whispered
Into my ear, Get up, go—go write, urging
Me to confession—

To remember it not as a failure of flight,
Not for the fall, for the end of that life,
But for the tender years of sweetest youth spent with
You, my childhood beast—

For treasures received, hidden in the garden,
Passing stories as we gathered wax and feathers,
Telling the tale and untelling it
Soon as it was told.

Found then at last is this, our first stanza of youth,
An autobiography of imprisonment,
The metronomic distance between arrival
And departure.

In the slatted daybreak, I witnessed, peeking,
Shadows in the garden and increments of
Color, light, and sound, which crept between the
Attention I gave.

Pulled by currents unknown, I held the shutters
Closed at night and opened them at morn, my mood
Regulated by how much light I allowed
Into the cold room—

Laying out ideas there upon twin beds,
Pushed together at night and boldly turned down
For a harvest inside of future dreams, for
What was yet to come.

In the future, I will remember this:
The blessing of the fleet, a foreign stillness,
Cousins to nostalgia and melancholy,
The passing lanterns

Of the night fishermen who poled and prayed
To hook a dream or spear a light under the
Suggestion of stars, once crossed, crossed again,
Sewing up the sky.

And in the future, I will think of him along
A cartography of where his hands have passed,
Maps drawn on silk, hidden in coat pockets and
Of his quiet stealth.

I marked days and a catalog of lesser
Innovations on the wall in an attempt
To record our evenings and think nothing to
Look upon them now—

In the sea, more than before us, and in that
Effort to notate what had occurred in the
Night, more than nearer your promises, more than
The whispering waves—

More than Helios to hypnotize, with wings
Or sails, testing, if the gods did not come, we would
Become the gods, through flight and hubris, with a
Harness for the wind.

But our alchemy gained little from it,
Our movement toward freedom, plunged, swallowed by
Seagulls or marauded by marlin, angels
That swim, fish that fly.

Along the margin of the boundary layer,
Water chased wind, coupled currents clashed to
Appease the appetites of too many in
Every direction—

And your soul’s energy, overharvested,
How I cried to leave you there, screaming in your
Labyrinth, and me aft, behind in the tailwind
Of my father’s flight!

Such craftwork, left like a plaything for a child,
His carelessness, a sword, and in the future
I will think of him thus, a father asleep,
A mentor surpassed—

A prisoner once caught, now a child drowning in
The sea. It was written by my own hand
Upon scrolls of the deep, this very love, this
Passion for falling.

*

I. Una calma straniera

i. Frammenti di Icaro

Fa’ che follia divina e frattura paterna non abbiano
importanza, sciagura è per noi l’esser resi immortali,
costellazioni che altri navigheranno via
da ciò che va evitato.

Sentii una gran voce nella testa la mattina
dopo la morte che mi destò dal sonno, mi sussurrò
all’orecchio: alzati e va’ – va’ a scrivere, spingendomi
alla confessione –

Per ricordarlo non come un volo fallito,
non per la caduta, per la fine di quella vita,
ma per i teneri anni di dolce gioventù passati con
te, bestia della mia infanzia –

Per tesori ricevuti, nascosti nel giardino,
ci scambiavamo storie raccogliendo cera e penne,
dicevamo la storia per poi rinnegarla
subito dopo averla detta.

E poi, infine, la nostra prima strofa giovanile,
l’autobiografia di una reclusione,
la metronomica distanza tra l’arrivo
e la partenza.

Nell’alba a stecche ho visto, sbirciando,
ombre nel giardino e incrementi di
colore, luce e suono strisciare furtivi in mezzo
alla mia attenzione.

In preda a correnti ignote, tenevo le imposte
chiuse di notte e le aprivo al mattino, l’umore
regolato dalla quantità di luce che accoglievo
nella stanza fredda –

Disponendo idee là, sui letti gemelli,
spinti insieme di notte e audacemente preparati
per un raccolto, all’interno, di sogni futuri, per
ciò che sarebbe stato.

In futuro, mi ricorderò di questo:
la benedizione della flotta, una quiete straniera,
cugini a nostalgia e malinconia,
le effimere lanterne

dei pescatori di notte che puntando le pertiche pregavano
per allamare un sogno o fiocinare una luce sotto la
suggestione di stelle, una volta attraversate, riattraversate,
a ricucire il cielo.

E in futuro penserò a lui lungo una
cartografia dei luoghi percorsi dalle sue mani,
mappe vergate su seta, nascoste in tasca ai cappotti e
alla sua quiete furtiva.

Ho segnato i giorni e un catalogo di minori
innovazioni sulla parete in un tentativo
di registrare le nostre sere senza pensare adesso
a come considerarle –

Nel mare, più che davanti a noi, e in quello
sforzo di annotare quel che era accaduto di
notte, più che vicino alle tue promesse, più che
il sussurro delle onde –

Più di Helios da ipnotizzare, con ali
o vele, testando, se gli dèi non fossero arrivati, che
gli dèi saremmo stati noi, in volo e in hubris, con
un’imbracatura per il vento.

Ma la nostra alchimia ne trasse poco vantaggio,
il nostro moto verso la libertà, s’immerse, ingollato
dai gabbiani o predato dai marlin, angeli che
nuotano, pesci che volano.

Lungo il margine dello strato liminale,
l’acqua inseguì il vento, correnti in coppia conflissero
a placare gli appetiti di troppi in
ogni direzione –

E l’energia della tua anima, intensamente sfruttata –
come ho pianto nel lasciarti lì, a urlare nel tuo
labirinto, e io a poppa, dietro al vento di coda
del volo di mio padre!

Un’opera simile, lasciata come il gioco di un bimbo,
la sua disattenzione, una spada, e in futuro
lo penserò così, a un padre che dorme,
un mentore obsoleto –

Un tempo prigioniero, ora ragazzo che annega
nel mare. Era stato scritto di mio pugno
sui rotoli degli abissi, questo stesso amore, questa
passione per la caduta.

Eppure, il cielo (Interno Poesia Editore, 2023), cura e traduzione di Andrea Sirotti

Acquista ora

Gottfried Benn

gottfried-benn

Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, non puoi andartene
quando è mancata all’ora la sua luce.

Durare, aspettare, giù in fondo,
ora sommerso, ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:

la natura vuole fare le sue ciliegie
anche con pochi semi in aprile
conserva le sue opere di frutta
tacitamente fino agli anni buoni.

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa mai se davvero la corolla fiorirà –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.

 

Aprèslude (Einaudi, 1966), trad. it. F. Masini

Giorgio Caproni

Ph. Dino Ignani

Al bel tempo di maggio le serate
si fanno lunghe; e all’odore del fieno
che la strada, dal fondo, scalda in pieno
lume di luna, le allegre cantate
dall’osterie lontane, e le risate
dei giovani in amore, ad un sereno
spazio aprono porte e petto. Ameno
mese di maggio! E come alle folate
calde dall’erba risollevi i prati
ilari di chiarore, alle briose
tue arie, sopra i volti illuminati
a nuovo, una speranza di grandiose
notti più umane scalda i delicati
occhi, ed il sangue, alle giovani spose.

Antologia personale (Garzanti, 2017)

Raymond Carver

carver
Chiedigli un po’

Con riluttanza mio figlio entra con me
oltre i cancelli di ferro
del cimitero di Montparnasse.
– Che modo di passare una giornata a Parigi! -,
gli vien voglia di dire. E infatti lo dice.
Sa il francese. S’è messo a parlare
con un guardiano canuto che s’è offerto
di farci da guida. Così in tre lentamente
camminiamo lungo file e file di tombe allineate.
A quanto pare, stanno tutti qui.

Fa caldo, c’è pace e il rumore delle strade
parigine qui non arriva. Il guardiano vuol condurci
alla tomba dell’inventore del sommergibile
e a quella di Maurice Chevalier. E a quella
di Nonnie, la cantante morta a ventott’anni.
ricoperta da un mucchio di rose rosse.

Io voglio vedere le tombe di scrittori.
Mio figlio sospira. Lui non vuol vedere niente.
Ne ha viste abbastanza. Ha oltrepassato la noia,
s’è rassegnato. Guy de Maupassant; Sartre; Sainte-Beuve;
Gautier; i Goncourt; Paul Verlaine e il suo vecchio amico,
Charles Baudelaire. Dove ci soffermiamo.

Ma ci sono diversi nomi incisi sulla lapide di Baudelaire
e non capisco che ci stanno a fare.

Il nome di Charles Baudelaire è stretto tra quello della madre
che per tutta la vita gli ha prestato soldi e s’è preoccupata
della sua salute, e quello del patrigno, un pedante
che detestava, ricambiato, lui e tutto quello che lui rappresentava.
– Chiedilo un po’ al tuo amico -, gli dico. Lui glielo chiede.

E’ come se lui e il guardiano ormai fossero vecchi amici
e io fossi qui per esser tenuto buono.
Il guardiano dice qualche cosa e poi mette
una mano sopra l’altra. Sorride. Alza le spalle.
Mio figlio traduce. Ma ho già capito.
– Come un sandwich, papà -, dice mio figlio. – Un sandwich Baudelaire -.

Al che noi tre riprendiamo a camminare.
Il guardiano preferisce far questo che altro.
Si accende la pipa. Guarda l’orologio. E’ quasi ora
di pranzo e di bere un bicchiere di vino.
– Chiedigli un po’ se vuole esser sepolto
in questo cimitero, quando muore.
Chiedigli un po’ dove vuole esser seppellito -.
Mio figlio è capace di dire qualsiasi cosa.
Riconosco le parole tombeau e mort
sulle sue labbra. Il guardiano si ferma.
E’ ovvio che stava pensando ad altro.
A battaglie sottomarine. Al varietà, al cinema.
A qualcosa da mangiare e un bicchiere di vino.
Non certo alla putrefazione, non al decomporsi.
Non all’annichilamento. Non alla propria morte.

Ci guarda in faccia, prima l’uno, poi l’altro.
Chi vogliamo prender in giro? Che razza di scherzo è?
Ci saluta e se ne va.
Diretto al tavolo d’un caffè all’aperto.
Dove potrà togliersi il berretto, passarsi
le dita tra i capelli. Sentire voci e risate.
Il tintinnio concreto delle posate.
Dei bicchieri. Il sole riflesso sui vetri.
Il sole sul marciapiede e sulle foglie.
Il sole che s’insinua sul suo tavolo. Sul suo bicchiere. Le sue mani.

 

Orientarsi con le stelle (Minimum Fax, 2013), trad. it. R. Duranti, F. Durante

Cees Nooteboom


Fuori ormai non vado piú,
ci sono, fuori. A metà strada tra la palma
e il fico. Sotto la mezza
luna, sette ore ancora alla rugiada.
Gocce sulla piombaggine.

Come si chiama ogni ora
della notte, come si chiama ogni minuto
dell’ora? Se i giorni hanno nomi,
perché non i minuti?

Ogni istante della nostra vita
dovrebbe avere un nome
che non assomigli al nostro,
che ci dimentichi. Ogni secondo
una cifra su un registro

di battiti di ciglia, sussurrio
origliato, versi di poesia
inframmezzati ai giornali,
sussurrio di brina e di neve,
la piú lenta poesia
della durata.

Tutto a formare un cerchio,
tondo come un quadrato,

ogni cosa per sempre
sposata a se stessa.

Luce ovunque (Einaudi, 2016) trad. it. F. Ferrari

Mark Strand


Errore

Scendevamo a valle lungo la corrente sotto un pulviscolo di stelle,
dormendo fino al sorgere del sole. Quando giungemmo alla capitale,
ridotta in macerie, facemmo un enorme falò con le sedie
e i tavoli che riuscimmo a rimediare. Il calore era tanto intenso che gli uccelli
in volo prendevano fuoco e precipitavano al suolo in fiamme.
Li mangiammo, poi a piedi ci addentrammo in regioni
dove il mare è di ghiaccio e il terreno è cosparso
di macigni come lune. Se solo ci fossimo fermati,
voltati, e fossimo tornati al giardino da cui eravamo partiti,
con la sua urna spaccata, il mucchio di foglie che imputridiscono, e ci fossimo seduti
a contemplare la casa e avessimo visto solo il trascorrere
del sole sulle finestre, quello sarebbe
bastato, nonostante l’ululare del vento che sospingeva le nubi verso il mare
come pagine di un libro su cui niente era scritto.

 

Error

We drifted downstream under a scattering of stars
and slept until the sun rose. When we got to the capital,
which lay in ruins, we built a large fire out of what chairs
and tables we could find. The heat was so fierce that birds
overhead caught fire and fell flaming to earth.
These we ate, then continued on foot into regions
where the sea is frozen and the ground is strewn
with moonlike boulders. If only we had stopped,
turned, and gone back to the garden we started from,
with its broken urn, its pile of rotting leaves, and sat
gazing up at the house and seen only the passing
of sunlight over its windows, that would have been
enough, even if the wind cried and clouds scudded seaward
like the pages of a book on which nothing was written.

L’uomo che cammina un passo avanti al buio. Poesie 1964-2006 (Mondadori, 2011), trad. it. D. Abeni, M. Egan

Giovanni Pascoli


Romagna

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:

sempre mi torna al cuore il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lussureggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,

oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;

mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.

Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;

e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.

Era il mio nido: dove, immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.

E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;

udia tra i fieni allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.

E lunghi, e interminati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepito di mare.

Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.

Così più non verrò per la calura
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,

Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.

Myricae (Rizzoli, 2015)