Una cosa buona
è che la roccia
può accucciarsi nel palmo
della mano, e sentire
i segni precari
dell’incisione nettissima,
taglio, abisso, o quel che
costò anche alla roccia la sua
esistenza come massa, anelante
concentrazione. La trattiene,
sforza ciò che la tana,
rigida e sbarrata, copre
per fuggire – la possibilità
della sua proiezione nello
spazio. Se solo si potesse
trattenere l’ignoto, ammucchiare
la massa in mezzo al palmo
per non esortare una riflessione
a tradursi in contorsione di ciò che viene
pedinato dal guinzaglio – l’assasiono sferza
sempre più rapido
d’ogni reazione, scaglia la prima
seconda, terza
pietra prima che la vittima si accorga
dei lividi e del sangue
tantomeno del palpito urgente del risultato.
In tale distesa desolata, non può
sopravvivere una voce se la lingua
è legata a feldspato. Ha bisogno
dell’unione del palpeggiare attivo
giù, attorno, in giro per schiacciare
tutto ciò che può distruggere
i detriti del suo nervosismo.
Nuova poesia americana – Los Angeles (Mondadori, 2005)