Giacomo Noventa


El saòr del pan, e la luse del çiel
Gèra inçerti prima de tì.
Ancùo me par una grazia el me pan,
E me continuo, vardando nel çiel.
Ancùo so che Dio no’ pol esser
Lontan da mi:
E ch’el xé dapartuto.
Mi te strenzo: e, cô i me brassi te perde,
Mi te çerco e te trovo partùto.

 

*

 

Il sapore del pane, e la luce del cielo
Erano incerti prima di te.
Oggi mi sembra una grazia il mio pane,
Ed è un continuarmi, guardando nel cielo.
Oggi so che Dio non può essere
Lontano da me:
E che è dappertutto.
Io ti stringo: e, quando le mie braccia ti perdono,
Io ti cerco e ti trovo dappertutto.

 

Versi e poesie (Marsilio, 1996)

Paolo Ruffilli


Non fu curiosità
e non fu noia
la cosa che mi spinse
e mi ha smarrito…
fu anzi la coscienza
minuziosa
di me e del mondo
a muovere e guidare
i passi ignoti
del mio precipitare.
Il mondo ed io,
corrispondenze esatte:
pietra senza labbro
e labbra senza verbo,
per quanto inseguo
e cerco.
Più che fuggire
gli sono andato
incontro,
ma niente ho mai
subito o abbandonato.
Ho sempre scelto,
e ho attaccato,
per ultimo me stesso…
né rinunciato affatto.
Ho scelto e amato,
sbagliando, sì,
e avendola aggredita
ho guardato in faccia,
tagliata, la mia vita.

 

Le stanze del cielo (Marsilio, 2008)

Camillo Sbarbaro


Padre, se anche tu non fossi il mio

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.

 

Pianissimo (Marsilio, 2001)

Margherita Rimi

Margherita-Rimi

P come poesia

Non ha pace questa poesia
una parola ora la metto
dopo non la metto

L’articolo è un impiccio
deve quadrare tra il
determinativo e
l’indeterminativo

E non parlo degli aggettivi
TUTTI IN OMISSIS

Come scansare la grammatica
salvarsi da quei
due punti
due professori che la vogliono spiegare

Andare a capo
è solo un’avventura
una infiammazione
non si sa da dove cominciare

Nel foglio bianco
non si sa cosa si tocca
una fantasia
un altro nulla da dire

Assisto anche
alle cadute delle virgole
al panico del punto
fermo

E le maiuscole
una vera neo
magalomania

I verbi poi
solo quelli che fanno movimento
gli immobili piacciono tanto
ai pittori

E niente trapassati remoti
che portano false notizie
falsa testimonianza

I titoli scompaiono
perché il mondo vivo
è pericoloso

Poi siamo alle parole grosse
Amigdala-Insula
Corteccia pre-frontale

la triade che fa di me
un narcisista
Parlano così solo gli scienziati

Come si sta scomodi
dentro le parentesi
quando si falsificano le cose
e nelle quadre
che nascondono le tonde
Un falso dentro un falso

L’asterisco è un segno
divino
È nelle stelle
è come una preghiera

Una parabola la chiocciola
una spirale @ antropologica

Lo slash è come una parola finta
straniera la sua trama
È solo la sbarretta che comanda
che il divide il tempo
in giorno mese anno

Le lineette non assumono
nessuna responsabilità
in diretta
fanno parlare gli altri

I trattini
sono per le parole in più
per quelle che voglio togliere il disturbo
al girotondo della lingua

Gli esclamativi sono esagerati
si fanno male
e fanno male
anche alla digestione

Davanti ai punti interrogativi
c’è da fermarsi e
aspettare
tutti
la sentenza

Il punto e virgola
non si decide
tra due poli
tra due filosofie

I tre punti di reticenza
tre illusionisti
non sanno quello che
fare immaginare

Nelle lungaggini ancora
ritornano
mi cercano le virgole
Non si capisce più niente
nelle parole

La mia difesa è
dai sostantivi che cercano
troppi aggettivi

E gli aggettivi giudicano
fanno sempre la spia

Non si dimenticano di niente
gli spazi bianchi
neanche di quello che non si vuole dire

Io mi fermo a metà con il cancelletto
per non restare sola
è un debito di ossigeno
un’altra possibilità di sopravvivenza

Ora basta continuare

Lungo i margini accosto
gli apostrofi

Se è un dettato
le virgolette
quando piange tanto

Se è un copiato
i quattro accenti
li metto al compagno

p.s.
Domani due agosto duemilaquattordici
te la leggo così ridiamo insieme
Domani due agosto duemilaquattordici
La costruzione della poesia

 

Nomi di cosa-Nomi di persona (Marsilio, 2015)

Giuseppe Ungaretti

giuseppe_ungaretti

 

In memoria

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

Locvizza il 30 settembre 1916

 

Il porto sepolto (Marsilio, 2001)

Camillo Sbarbaro

Camillo_Sbarbaro

 

Padre tu che muori tutti i giorni un poco
e ti scema la mente e più non vedi
con allargati occhi che i tuoi figli
e di te non t’accorgi e non rimpiangi
se penso la fortezza con la quale
hai vissuto; il disprezzo c’hai portato
a tutto cio’ che e’ piccolo e meschino;
sotto la rude scorza
il tuo candido cuore di fanciullo;
il bene c’hai voluto a tua madre,
a tua sorella ingrata, a nostra madre
morta;
tutta la tua vita sacrificata
e poi ti guardo come ora sei,
io mi torco in silenzio le mani.

Contro l’indifferenza della vita
vedo inutile anch’essa la virtù
e provo forte come non ho mai
il senso della nostra solitudine.

Io voglio confessarmi a tutti, padre,
che ridi se mi vedi e tremi quando
d’una qualche premura ti fo segno,
di quanto fui codardo verso te.
Benché il rimorso mi si alleggerisca,
che più giusto sarebbe mi pesasse
sul cuore, inconfessato…

io giovinetto imberbe ti guardai
con ira, padre, per la tua vecchiaia…
stizza contro te vecchio mi prendeva..

Padre che ci hai tenuto sui ginocchi
nella stanza che s’oscurava, in faccia
alla finestra, e contavamo i lumi
di cui si punteggiava la collina
facendo a gara a chi vedeva primo –
perdono non ti chiedo con le lacrime
che mi sarebbe troppo dolce piangere
ma con quella più amare te lo chiedo
che non vogliono uscire dai miei occhi.

Una cosa soltanto mi conforta
di poterti guardare a ciglio asciutto:
il ricordo che piccolo, al pensiero
che come gli altri uomini dovevi
morire pure tu, il nostro padre,
solo e zitto nel mio letto la notte
io di sbigottimento lacrimavo.

Di quello che i miei occhi ora non piangono
quell’infantile pianto mi consola,
padre, perché mi par d’aver lasciato
tutta la fanciullezza in quelle lacrime.

 

Pianissimo (Marsilio, 2001)