Mario De Santis

“Come si dice l’incidente è chiuso”
(V. Majakovskij)

Li guardo i tuoi occhi che non fissano me, nella foto
sono il rovescio dello specchio e vanno larghi
da sciarre che ti frantumano, mortali, a tempo, all’anteriore,
del margine e di sale. Ora lo dici, che preferisci la terra bruciata
delle storie che ti tieni sepolta nel sangue
e non guardare che viene. Ma non vivere il tempo
è come farsi respirare. Qui si resta, dove accade che vai.
Non è lo stesso basamento, il molo di Napoli, o il punto del creato
a chiedere distanze, a misurare due pronomi di due lingue
straniere: era un giardino di città, spoglio tra viali e binari
dove abbiamo cercato qualcosa che invece non era morte.

Cercavamo le chiavi, tra i fazzoletti usati ed i condom
a chiudere uno nell’altro – era perfetto come sai;
la caserma Cernaia come la prigione, ma niente obbediva
ai suoi giorni, con noi sotto l’albero a notte, lenti passavano
i tram, lenta l’ombra che siamo di foto che nessuno vedrà
in cui nascondere così bene il groppo di buio
da dove cercavamo di tornare. E ridevamo, eccitati
ma abbiamo frainteso la vita – e non lo sapremo.
Andava giocata, anche da vinti, anche se ci aspettava divisi.

 

(Torino, settembre 2015)

 

© Inedito di Mario De Santis

© Foto di Valentina Tamborra

Mario De Santis


Paesaggio di fuga

L’uomo che dalla riva guarda il fiume è vecchio
non ha più domande; l’acqua che scorre in tumulto
e il sole fanno la cera sciolta della pianura
che sta nei fiori abbandonati, eccoli, risata
in un deserto nuovo che avanza, dalla riva
che nasce assurdo proprio dall’acqua
a gora, raccolta muta e malmostosa.
Sarà il silenzio l’imprevisto del nostro futuro;
per ora il ponte verso Bereguardo
è pieno di rombo. Un’aria turbata raccoglie
le schiume in mezzo ai moli. Generazioni
sospese attraversano insicure la corrente,
non conoscono estati inferme, nel pensiero
nel guizzo storto di un cormorano luce di un tesoro.
Adesso in questo nulla che nessuno ha previsto
si raccolgono cadaveri deformi di animali: alla fine
della piena, petali senza colore e gocce in plastica
sono la confusione del sangue: come vena ora scorre
dove il fiume tace
ma chiama la vita ai nostri sguardi con l’inganno,
l’attira con l’abbaglio della schiuma rosa che resta,
coi dolci movimenti pacifici, sull’onda.

 

 

© Inedito di Mario De Santis

Mario De Santis

de santis
Non è automatico

Un abbraccio è il nodo dell’uovo
quella tua piccola cerimonia sospesa
dove la morte fa il trucco, dove il profumo
perfetto è nelle vene, intorno ai polsi.
Poche volte, se cade dentro un unico respiro,
questo viale ha tremato in un silenzio
i negozi già deserti, nessuno alle finestre.
Siamo all’addio, che si compie senza precedenti,
drappelli di turisti e una stazione d’agosto
Il sangue dolce fatto mare per cerimonie
di un solo giorno che chiudono un millennio.

Qui nasce il ritorno impossibile di un’ora
in questa musica di spot, in un’insidia
che interroga casse abbandonate, orologi falsi
quelli che vengono solo a vedere. Una corona
oppure gabbia, tutti i nuovi grattacieli
noi siamo dentro questa Milano
che era tutto quello che non nasce, d’ora in poi.

 

© Inedito di Mario De Santis

Mario De Santis

mario de santis

Scia

a R.

 

1.

“lo sai, è veramente la fine d ogni cosa”
dice di un amore – e mente, solo cerca
dove si rompe il coltello sulla tempia, l’assedio
di una sera, il capogiro dove scendono i pianeti
la loro forza che calma, il loro freddo che cura.
“un taglio perfetto spesso segue l’orbita di un gesto d’amore
ma resta ingiusto come tale” io dico, cercando la mia stasi
nella retta delle vie di Prati, cercando la tua chiesa
invisibile come l’universo. Guardo gli occhi, vessilli
neri di un popolo tronco, ci abita il tuo silenzio
il cielo vuoto lo somiglia al mio. Intorno impallidisce
Gennaio, i negozi non apriranno più, l’aria fittizia
di questo ennesimo anno non si vede,
come il dio che ci ha lasciato, impotente,
al ballo di alcolici, al giro di case in affitto.

 

*

 

2.

Chi le abita, arriva coi topi la sera, lune che indorano
e bar elettrici a scavare in un milione di bicchieri,
guardi nelle finestre: abitano qui, dove i vestiti
poggiano come le buste di rifiuti,
colorano tetri la via. Non è così bella la terra,
ma una città serve a proteggere distanze, il sì che c’è nel no,
la cosa che appartiene da quella che si consuma.
Lamiere e marmo a splendere, come un altrove.
noi cerchiamo un parto in un giro di tango
in una carezza che manca, anche se il giorno impazzisce
e resta muto. L’attesa è restare tutti i giorni
in questo bar, come il vertice del vetro
è nella trasparenza. Andando via senza tante parole
nasce tra noi una libertà di assoluto niente, che non serve.
C’è un gesto possibile, ma non lo cerchiamo.
Resti qui tu, come una figlia a bruciare in un guscio
labile, in un abbraccio, quello che non ci daremo.
Camminando, la sosta all’angolo e poi chissà,
guardo rassicurato i lavori di scavo nell’asfalto:
il mio tempo finisce se non vedo più quella scia
da dove sei venuta, dove sei tornata.

 

© Inedito di Mario De Santis

Mario De Santis

de santis

Il deserto Atacama

Per A.U.

1.

Quando alla fine siamo pressati, le stanze abolite,
unico e abnorme, privatissimo, ci resta un cunicolo:
il metro cubo dei senza-terra che siamo diventati.
Solo aria, la musica feroce, lunare, custodita in un sacco,
una crosta di pane, un rimedio, un odore
che finalmente posso dire mio, per quanto non saprei
come dirlo, passo nella condensa di un vapore pesante
di sale, lascio la casa come unico figlio, senza voce.

Ora sono qui, su un suolo blindato e derisorio,
con un pegno illegale, senza
carta, senza nome ufficiale: ho l’unico destino
che non esiste più di me, che non riesce a esistere –
siamo ombre, in un velo malvagio, ci rende poveri, fuori
dal panegirico e fuori dalle coincidenze. Tutti noi senza volto
che abitiamo l’estrema dissolvenza di quartieri,
dentro svincoli, non dormiamo, cerchiamo di vivere:
assenti, in questa forma di estrema stasi, come una santità
che è forse lasciare tutto questo almeno per ora.

Cosa sono nella carne se aspetto come un giudice in pensione
altri giudicare? Che cosa è il vuoto che non ho sperato mai
di riempire, scomparendo? La morte, che ci fa clandestini?

 

 

2.

Nel frattempo, depositato in tutti gli angoli, esule
abiterò gli anni dell’ evanescente con la solitudine –
abito tutto quello che vedi e che non ha i segreti
del perdono, morto di un amore che dilapido
osceno: tutto il pulviscolo del mondo sta nell’occhio,.
nella sua coda, elencato, come una lista di case
di persone amate e indirizzi, di numeri disattivati
di bar chiusi che mi ricordo. Una pura elettrolisi
una carne che viene salvata ad un destino e poi
lasciata in un intervallo di paralisi, questo giorno.
Il non sommabile, non ghiera, non raffica: lo scarno vivere –

E questo vento, invade e sequestra nella sua buriana
ogni possibile fiorire, lo strappa, lo rimanda
porta in bocca tutto il tempo di polvere che è rimasto
il non vissuto, bolo che soffoca, un troppo tardi
che uccide. Però i fiori di malva di Atacama sono lì,
fioriti senza noi, che sempre volevamo
visitare quel posto, come tutto
il mondo: esistono in un’ora che è l’unica che sia
e duri, senza noi, se diventiamo, se non saremo, restando.

 

© Inedito di Mario De Santis

© Foto di Valentina Tamborra

Mario De Santis

mario de santis

Interno

quando sono le stelle a viaggiare
siamo noi i punti fissi del mondo
attendere è ribaltare le attese
stare in un punto sapendo che tutto il resto
è vuoto. Così io aspetto il tuo arrivo
tra le famiglie dei pianeti, in un delirio
di orbite e attrazioni. L’universo fugge
verso tutti gli amori impossibili
il punto oscuro da cui il sole ha trovato,
nel buio, la sua strada. Così non c’è niente
da dire, farà tutto la materia
dove ci siamo già incontrati.

 

© Inedito di Mario De Santis

Mario De Santis

de santis

tú cantas consuelo, tú cantas esperanza,
tú cantas rimedio.

(Gabriella Ferri)

 

A volere inventare partenze ora saremmo
lontani, come in un bicchiere di vino
vuoto sopravvive alla perfezione del brindisi.
In un chiodo di luce pixel abita la fine dei tuoi occhi,
a milioni. Nuotare invece in una goccia, trascendere
il rosso; da lì cade il tuo labbro che si volta
non su chi resta, al contrario – non io,
né dove sarei se non fossi con te che mi fissi
diretta ad un fondo, alla sete, agli orari, oltre me.

Non genera tempo la resa all’oggi che dichiari, non ne risponde:
c’è il fiato immobile di un parco di notte, la chiave persa
di una stanza d’hotel. E così non puoi vedermi né sapere
della partenza e di una direzione, né del ragno
sparito che attraversava il lenzuolo, la vernice
che cade, il futuro cliente, il binario – di domani, a quest’ora.
Ci siamo già detti quel che solo tu sapevi, ma ora è possibile
che questa lingua curva di una mattina nessuno più
la intenda, l’idioma nuovo solo di due stava su di noi.
Stava in quadro, in canale, nell’erba da nascere
Nella stagione, che si ripete e ricade
in altri silenzi e in altre sorti, senza di noi.
Eppure ne sarà il rimedio, perché dura. E tuttavia
se non fosse, c’è stato il volto dilatato da un ricordo
nel respiro, ci saranno occhi su cui riposano le pietre
del miracolo, in cui non abbiamo mai creduto.

 

© Inedito di Mario De Santis

© Foto di Valentina Tamborra

Mario De Santis

profilofot
Nasci in un tempo lavato, nel mezzo volto
delle foto, nel mezzo piano di uno schermo.
Nasciamo tutti così, nascosti in un dondolo
di negazioni ed affitti, una trincea della febbre.
Poi si arriva a vedere l’inganno ed era con te, da prima
che tutto fosse un bisbiglio, anche ottuso,
prima che ci incantasse la serie dei sorrisi
io nel tuo senso di fuga, dove non c’è affondo, o radura
tu nei miei giorni in eccesso che hanno troppe voci da capire.
Così per fondare la città che era noi, fu battaglia
ho provato a vendere case senza porte.
E nella città insicura noi soli ad abitare, come profughi
nei cubi di ferro occupati, per primi. Fu poi un difetto
l’attesa di un ritornello della storia, o un destino.
Da sempre non siamo che farina di luce.
Lampeggia, ognuno disperso, il pulviscolo
che siamo stati, come noi nei viali dove né armi
né insegne, riparano, dove né l’oro ci trova, né alla fine la resa.

 

© Inedito di Mario De Santis

Mario De Santis

mario de santis

 

Giorni

Combaciano in un giorno che sollevato al cielo, di colpo
libera la primavera degli ospedali, da cui
un peso ne caveremo, come sporgono dalle finestre
voci di malattia, vite banali come allegre, un alito. Il dissimile
dall’estro, da ogni abbandono. Il suono del respiro
è semplice, roco, un motore di sangue inaudito.
Tuona, mentre cammina quel che non sono, tra i viali
dal Policlinico e così mi guarda alla finestra dove muore,
solo, mio padre. E guarda sottoterra le nuvole
mosse e toccate, nascono luci da generatori
in un tilt si riposa la paura, nella gola nera passano
transiti e verbi, impossibili sono certi ritorni degli anni
– e in fondo non è fin qui che arrivano i loro fantasmi?

ogni domani, ogni promessa, ogni sguardo nel buio
ogni terrazzo di Roma, ogni albergo che ci accoglie stanotte
e mai più? soffrono le inesistenze leggere, che hanno corpo
e albe sempre lecite – come noi, che lo siamo, finalmente
ma non precipita la loro rivelazione, non dice cosa sono,
come non sussurra un canto contrario. Due hanno un cielo
perenne ed aperto. Uno sta nel camminare dentro
la città che se ne muore, dentro il Ghetto a rivedere
passi e sbagli che si fanno, alleati. L’altro a dare sangue
al prossimo pericolo, a cercare primavere meno cupe
e non contare i giorni veri – e poi c’è un un calendario,
per tutti e per nessuno.

 

© Inedito di Mario De Santis

Mario De Santis

mario de santis
Improbabile

Per questo senza vivere, tutto parla
come i fogli di montaggio dei mobili
con dei vaghi disegni perentori: perché inutili i nomi
secchi, che esistono solo nell’ arredo, fanno le capsule comuni
del riconoscersi, ma senza mai vedere come è uno nell’altra.
Come è improbabile, mia amica, il congedo
in questo svegliarsi in un giorno e averlo già vissuto:
si moltiplica il formicolio delle mani appena invadiamo
viali al mattino, come le braccia sollevate in un bus
tutti quelli che hanno in silenzio lo stesso
divano, il lavello, l’armadio, non lo chiamano più
per quel nome, c’è il panico delle cose comuni.
Era il fulmine a dare l’enigma, ora è il calore che combacia
la mano che si aggrappa vicina alla mia mano
la vita che sta tra il capo chino e il vapore che siamo.
Come fare un lavoro, come scrivere addio:
nessun atto è più urgente se tutto è solo immediato
e si ripetono solo le attese disperate: chi è muto
chi ha perso le chiavi o un paese e sta fermo come una farfalla
sull’epidemia di carezze illuminate.
Chi ha affogato dolore sbarcando nel suo vuoto.
Loro in ombre come noi, sono lo sbuffo cupo
dalle grate vicine al marciapiede, dalle crepe, nei volti,
un sottofondo.
Noi non lasciamo più orme, qui c’è il catrame appena messo,
ma da dove parlano quelle è un tumulto, una tosse di veleni:
vanno a grappoli dal Sahara al carbonio,
a condividere assenti e presenti,
una mattina di malesseri, il disgusto, il sale nei cappotti
dove c’è vomito, e dire no, e non voltarsi, e nessuno
essere soli, toccare davvero. Abbiamo un giorno da riempire,
come le ragazze dell’amore, minacce e desideri.
Lo dimentichiamo, amica mia,
non vedi che è solo fluorescenza come me, come te, non ci vedi
scomposti e ricomposti in una replica a sera, nei ritorni dal lavoro?
Siedi ora sul divano e guardi l’alone dei led
senti questo giorno sognato come l’ultimo, come incerto
materiale di una veglia, corollario, testamento, e credi finirà?

 

© Inedito di Mario De Santis