Intervista al poeta: Umberto Piersanti

Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941, dove tuttora vive e insegna. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche (I luoghi persi, Einaudi 1994; Nel tempo che precede, Einaudi 2002; L’albero delle nebbie, Einaudi 2008; Nel folto dei sentieri, Marcos y Marcos 2015), saggi e opere di narrativa (L’uomo delle Cesane, Camunia 1994; L’estate dell’altro millennio, Marsilio 2001; Olimpo, Avagliano 2006; Cupo tempo gentile, Marcos y Marcos 2012 ); è anche autore di film (L’età breve, 1969-1970; Sulle Cesane, 1982; Ritorno d’autunno e Un’altra estate, 1988 ). Tutte le raccolte precedenti le tre sillogi edite dalla Einaudi sono uscite in un unico volume dal titolo Tra alberi e vicende, Archinto 2009. La sua ultima opera è un libro di racconti: Anime perse, Marcos y Marcos 2018.

 

1. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?

A mio parere il livello medio della produzione poetica è nettamente superiore a quello della narrativa. Quest’ultima ha visto il predominio assoluto dei generi: giallo, horror, fantasy ecc. Senza contare le centinaia di commissari in giro per la penisola. La poesia è ancora capace di una resistenza nei confronti della commercializzazione e della banalizzazione che hanno investito il mondo delle lettere.
Pier Vincenzo Mengaldo riteneva che dopo la terza generazione (Luzi, Bertolucci, Caproni, Sereni ecc..) e suoi immediati dintorni (Zanzotto, Giudici, Raboni ecc.) non ci fossero autori dello stesso livello nelle generazioni seguenti. Non so se è vero: ritengo comunque che anche dopo questa terza generazione, si siano affacciati vari autori di valore. I nomi sarebbero vari, ma per non farmi oggetto dell’ira dei trascurati, faccio un solo nome: Milo De Angelis.
La presenza di internet, se da una parte ha aperto a possibilità e conoscenze che magari si trovavano al di fuori delle strette cerchie editoriali, dall’altra ha invaso l’etere con un profluvio di versi tra i quali non è facile districarsi.

 

2. Ma, prima di tutto, cos’è per te la poesia?

Nessun critico può dire con sicurezza questo è o non è un poeta. Ognuno ha un setaccio attraverso il quale passano solo certi grani; lo deciderà il tempo, lo decideranno altri uomini prima o dopo chi è un poeta e che come tale rimarrà nelle memorie. Per me la poesia è il tentativo di cogliere il senso delle cose e delle vicende con parole giuste e precise. La vita e i libri sono alla base della poesia stessa. Bisognerà essere capaci di riuscire ad avere una visione del mondo ed un sentimento delle cose. Inoltre trovare un proprio accento, una propria pronuncia che non si basi su una velleitaria originalità.

 

3. Chi sono i tuoi maestri?

Sono tantissimi e sono vissuti lungo l’arco dei secoli. Per rimanere all’antichità classica: Virgilio, la pietas e la sua percezione della natura mi hanno da sempre coinvolto e commosso. Venendo a tempi più recenti, gli autori tra ‘800 e ‘900: Leopardi in primis e poi Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Debbo moltissimo a questa generazione. Nel pieno ‘900 grande è il mio amore per il primo Montale, da “Ossi di seppia” alla “Bufera”. Bertolucci l’ho avvertito fraterno nel suo amore per la terra e le stagioni. Ho conosciuto e frequentato Mario Luzi e Giorgio Caproni. Anche i miei compagni di viaggio mi sono stati e mi sono un po’ maestri. Dei non poeti, due grandi nomi che mi hanno anche seguito: Carlo Bo e Rosario Assunto che rappresentano il miglior tempo della vita e della cultura urbinati.

 

4. Che cosa occorre per diventare un poeta?

La voglia di raccontare e di capire. E ancora di più quella di fermare il tempo, di fissare in parole o immagini qualcosa che possa resistere al flusso inarrestabile dei giorni. E per far questo è necessaria tanta tenacia, tanta voglia di non arrestarsi di fronte agli insuccessi ed alle difficoltà che si incontrano nel nostro cammino. E poi naturalmente bisogna leggere tanti libri, non solo di poesia. La propria cifra non nasce da qualche fantasiosa e mitica purezza, ma dalla conoscenza e dalla fatica.

 

5. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori?

Un romanzo lo puoi leggere tenendo magari solo conto dell’intreccio. Una qualche trama è presente anche nelle narrazioni più difficoltose. La poesia pretende un corpo a corpo con il testo, necessita di un’educazione della sensibilità e di una specifica attenzione alla parola. L’Italiano è abbastanza pigro: è mancata inoltre quell’educazione letteraria presente in altri grandi paesi. Nel ‘700 inglese per le strade c’erano i venditori ambulanti di libri. Se leggiamo Proust, vediamo come la nobiltà e l’alta borghesia che pure sono oggetto di vari strali da parte dell’autore, parlano più o meno consapevolmente e più o meno futilmente di letteratura, arte e musica. Immaginiamo di trovarci nello stesso periodo in qualche salotto della nobiltà nera romana: credo che non avremmo questo tipo di bei “conversari”.

 

6. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Escono migliaia di libri di poesie che vengono letti solo dai parenti e dagli amici: si tratta di una lettura fatta solo, se è fatta, per compiacere il parente o l’amico. E questo non può essere considerato un pubblico della poesia. Se vado in una scuola e chiedo a docenti ed alunni quante raccolte di poesia hanno acquistato, la stragrande maggioranza riferirà di aver letto poesie solo nelle antologie prevalentemente scolastiche. Quasi tutti invece, avranno acquistato o letto qualche romanzo. Il che non toglie che anche per la narrativa, la vita sia piuttosto grama: le opere che non sono state sufficientemente promosse dalla televisione e dai social rimangono negli scaffali delle librerie. Se chiedete ad un rumeno, studente o commessa od operaio, chi è Marin Sorescu, moltissimi lo conosceranno. Tonino Guerra non ci credeva: lo chiedemmo a due cameriere di un ristorante di Senigallia e perse la scommessa. Per quel che riguarda le scuole elementari ai pampani bugiardi di cui parlava Eco sono seguiti i giochetti verbali alla Rodari. Nelle superiori (non sempre ci sono professori bravissimi) la poesia è stata affogata o in una melassa sentimentale o in una lezione di retorica e metrica. Tutti sanno che nelle librerie, gli scaffali di poesia sono i più piccoli e i più nascosti. Gli editori più grandi vedono le collane di poesia come un semplice fiore all’occhiello su cui non investire. Per quel che riguarda la televisione, da Fazio o nella rubrica di Luverà non ricordo di aver mai visto un poeta. A ognuno la sua parte di colpa. Non credo che la poesia potrà mai avere un pubblico di massa, ma non dovrebbe averne neanche uno da archeologia assira.

 

7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

I poeti dovrebbero andare nelle scuole per dimostrare con la loro stessa presenza che si tratta di un’arte che non appartiene solo al passato, ma è presente ed opera anche nell’oggi. Dovrebbero andare nelle scuole poeti non solo bravi, ma capaci di coinvolgere e commuovere. Festival e letture pubbliche dovrebbero aumentare la loro presenza e la loro capacità di attrazione. Anche i premi, quelli seri, che prevedono una giuria tecnica alla quale, per la scelta finale subentra una giuria popolare, servono ad allargare la platea di lettori non superficiali ed occasionali. Portare la lettura di poesia anche in luoghi non deputati come ospedali, carceri ecc. senza per questo banalizzarla in un mero impegno sociale.

 

8. Gli Instapoets aumentano le possibilità di avvicinare nuovi lettori agli scaffali di poesia?

Un poeta si giudica dai suoi testi ed anche un Instapoets può scrivere un bel testo. Nella stragrande maggioranza dei casi, ci troviamo di fronte a banalità ed improvvisazioni: della poesia resta l’andare a capo. Non è il numero dei followers quello su cui si può misurare l’importanza di un poeta. Anche in passato, alle quattrocento copie di “Ossi di seppia” potevano essere contrapposte le migliaia di copie dei romanzi di Guido Da Verona. Solo che in questa società liquida dove tutto può passare attraverso internet, la terra piatta, le piramidi su Marte ed altre amenità del genere, questo non è un fenomeno da sottovalutare con cipiglio aristocratico. Vari grandi editori danno spazio a questo sottogenere di poesia: ho letto gli orrendi testi di Francesco Sole. Ed anche quando non si arriva a livelli così bassi, la ricerca del personaggio, a cui non si sottraggono neanche le case editrici più prestigiose come la Mondadori e l’Einaudi, varie volte prevale sul valore: del resto i consulenti editoriali non sono più i Bassani, i Sereni, i Vittorini che pure potevano fare i loro sbagli, ma altri ben più modesti guidati da un mercantilismo spiccio o dalle complicità amicali.

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Non ho la sfera di cristallo, ma sono convinto che, a meno di una mutazione genetica, la poesia resisterà. Rimane il pericolo, per quanto remoto, della mutazione genetica.

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

In un tempo remoto, quando ero piccolo e Rodari e seguaci non imperversavano, ho avuto, come migliaia di italiani, un primo profondo impatto emotivo con la poesia grazie a questi versi di Carducci: “La nebbia agli irti colli /piovigginando sale, e sotto il maestrale / urla e biancheggia il mar”. E poi, dell’amatissimo Leopardi: “Primavera dintorno / brilla nell’aria, e per li campi esulta, / sì ch’a mirarla intenerisce il core”. Ed ancora: “Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi / sul paterno giardino scintillanti”. Passando al ‘900, questi due versi di Montale: ”Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a strapiombo sulla scogliera”.

 

Intervista a cura di Andrea Cati

Intervista al poeta: Alba Donati

Alba Donati è nata a Lucca e vive tra Firenze e Lucignana (Lu). Ha pubblicato La repubblica contadina (City Lights Italia 1997, Premio Mondello “Opera Prima” 1998, Premio Sibilla Aleramo 1999), Non in mio nome (Marietti 2004, Premio Diego Valeri, Premio Pasolini, Premio Cassola “Ultima Frontiera), Idillio con cagnolino (Fazi, 2013, Premio Dessì). Ha curato Costellazioni italiane 1945-1999. Libri e autori del secondo Novecento (Le Lettere, 1999), Poeti e scrittori contro la pena di morte (Le Lettere, 2001), l’edizione completa delle poesie di Maurizio Cucchi (Oscar Mondadori, 2001) e, insieme a Paolo Fabrizio Iacuzzi, il Dizionario della libertà (Passigli 2002), con interventi Todorov, Yehoshua, Adonis, T.B. Jelloun, Bauman, Luzi, Gustafsson e altri. È uscita a maggio 2018 la raccolta completa delle sue poesie con molti inediti: Tu paesaggio dell’infanzia – Poesie 1997-2018 (La nave di Teseo, Premio Metauro e Premio Martoglio). È presidente del Gabinetto Vieusseux, prima donna in 200 anni, e fondatrice di Fenysia, la prima scuola dei linguaggi della cultura.

 

1. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?

Abbastanza in pericolo, come tutte le azioni umanistiche. Minacciata da una perdita di identità che va di pari passo con la sua diffusione orizzontale. Poi però la poesia spunta all’improvviso in un luogo, in una persona. Spunta verticale, come suo destino. E si ricomincia a pensare che non tutto è perduto.

 

2. Ma, prima di tutto, cos’è per te la poesia?

La poesia è soprattutto l’amore che ho per la poesia. La leggo da quando ero piccola, mi è sempre piaciuta la porzione di libertà che ti mette a disposizione. Possedere una visione e un linguaggio è la poesia. E possedere un linguaggio ci rende liberi.

 

3. E chi sono i tuoi maestri?

Tantissimi, dalle professoresse delle medie e del liceo che erano donne fantastiche e che mi hanno insegnato il senso civile della letteratura: una mi faceva leggere Quasimodo e Brecht a 12 anni e l’altra Elsa Morante, Fenoglio, Primo Levi a 14. Poi ci sono state esperienze di letture fondative da Paul Celan ai poeti russi, fino a Wislawa Szymborska. Come vedi il punto di partenza è lontanissimo dal punto d’arrivo. Poi aggiungerei un Pascoli, riletto dopo Garboli. Un poeta davvero moderno, innovativo. Il tema della morte come visione, le paure di una psiche scossa che producono una poesia piena di lacerazioni ma anche onirica, prefreudiana. E poi le intuizioni linguistiche: quel ‘febbraio’ che rima con ‘Ohaio’, all’inizio di Italy.

 

4. Che cosa occorre per diventare un poeta?

Mi ripeto: occorre un linguaggio, una visione e un’ossessione. L’ossessione ha a che fare con la necessità di raccontare le cose in un altro modo, perché così come sono raccontate non ci piacciono. Occorre sentire la prossimità della vita e della morte. Occorrono molti libri letti, film visti, musica ascoltata. Occorre in tutto seguire lo stesso filo. Poi ognuno ha la sua storia. A me è bastata una soffitta e molta infelicità di bambina.

 

5. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori?

Perché siamo arretrati, improvvisatori, giocolieri, e sfaticati. Pensiamo che sia tutto raggiungibile senza fatica. La creatività è un dono che va coltivato con passione, altrimenti si riduce a scarabocchio, bello, artistico, ma pur sempre scarabocchio.

 

6. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Di tutti. Nessuno investe davvero sulla poesia. Il marketing ha poi chiuso il problema.

 

7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Da un lato sono fatalista e penso che se lasci andare le cose, esse poi si aggiustano, nel senso che tornano giuste da sole. Dall’altra invece penso che bisogna andare nelle scuole, leggere, parlare, farsi testimoni.
Insomma non ho una risposta di cui sono certa.

 

8. Gli Instapoets aumentano le possibilità di avvicinare nuovi lettori agli scaffali di poesia?

Credo proprio di no. I followers degli Instapoets temo non abbiamo mai visto uno scaffale di poesia.

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Forse più brutte poesie? Sui social c’è una gran confusione tra poesia e fraseggio esistenziali romantico, quest’ultimo con migliaia di followers. Dall’altro lato però i veri poeti tornano ad una certa complessità formale.
Insomma più il livello generale si abbassa e più chi ha davvero cose da dire si verticalizza, ignora il marketing, e qui il fenomeno diventa interessante. Quindi direi che si leggerà di meno ma meglio.

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

(…)
non voglio fare un verso
che non abbia patito di persona;
come stasera, al perso
lume del giorno l’anima mi suona.

(Carlo Betocchi)

 

Intervista a cura di Andrea Cati e Giulia Martini

Foto di Leonardo Pasquinelli