Intervista al poeta: Gian Mario Villalta

Gian Mario Villalta. Professore di liceo, saggista e narratore (il suo ultimo romanzo si intitola Bestia da latte, 2018, SEM editore), segue da molti anni il panorama poetico italiano (particolare attenzione ha dedicato all’opera di Andrea Zanzotto collaborando al Meridiano Mondadori e curando l’Oscar degli scritti letterari) e scrive poesia (Premio Viareggio 2011 con Vanità della mente, Mondadori editore). Il libro di poesia più recente è Telepatia (Lietocollle 2016). È direttore artistico di pordenonelegge. festa del libro con gli autori.

 

1. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?

La poesia, soprattutto quella italiana, sta bene. Però è fortemente ipocondriaca, forse a causa di tutti quelli che fingono di interessarsene (per educazione? per malizia?) e le richiedono continue visite e infiniti prelievi per innumerevoli esami, radiografie e tomografie inesauste.
Chi non ha mai avuto la sensazione che qualcuno si senta in obbligo di fare domande sulla sua salute, senza che gli importi davvero? Oppure, per fortuna più di rado, quasi speri che gli si risponda accusando qualche acciacco? Ecco, da molto tempo mi pare che la situazione sia questa.

 

2. Ma, prima di tutto, cos’è per te la poesia?

Il punto di incontro tra memoria biologica e memoria culturale? Il brusio del corpo e il brontolio della coscienza che si fanno voce unisona e dissonante? Devo cercare un’altra frase ad effetto?
La domanda non è nuova, e la risposta è sempre stata condizionata (e lo è anche per me adesso) da una questione molto seria, che vede il fare (l’arte) da una parte e la morale (l’agire) da un’altra. Quello che complica la faccenda, a un certo punto, è la politica: è un’arte, se sì, l’“arte della politica” come intende l’“agire”, fa parte del fare?
Ma non basta, c’è qualcos’altro, ciò che l’uomo fa su se stesso attraverso l’esperienza, l’esercizio, l’ascesi, l’anacoresi, quelle che Peter Sloterdijk ha chiamato antropotecniche: che cosa fa l’uomo quando istruisce attraverso l’esercizio e l’esperienza se stesso a delle forme del fare (arte) che incidono sul duo agire (morale) e lo modificano?
Ho incontrato molto presto nella poesia questo punto di cecità dove il saper fare finisce e deve iniziare il modo di essere e dove il modo di essere nutre il saper fare. Un punto di cecità dove convergono molte forme del sapere, molte modalità del sentire e molti momenti dell’esperienza.

 

3. E chi sono i tuoi maestri?

Solo di poesia? In ordine cronologico o in assoluto?
Facciamo in ordine cronologico: Th.S. Eliot, Andrea Zanzotto, Paul Celan, Seamus Heaney, le principali pietre d’inciampo.
Molto però ho imparato dagli amici poeti, quello che si impara anche controvoglia, quello che si dice “è una buona strada, ma non la mia”, oppure quello che scopri con il tempo che è giusto e prima credevi sbagliato e proprio allora è il momento di capire meglio anche quello che chiedi a te stesso.
In fondo però devo dire che quella che è stata la mia esperienza più vicina a ciò che si intende come un rapporto maestro-allievo mi lega senza dubbio ad Andrea Zanzotto.

 

4. Che cosa occorre per diventare un poeta?

Se torniamo alla risposta 2, possiamo aggiungere una coda: il poeta si giudica per quello che fa, ma se non diventa, se poi non è quell’uomo che fa quella cosa, allora fa il poeta ma non lo è. Parimenti si dica della donna poeta, con le differenze caso per caso ma senza disparità alcuna di valore.
Perciò direi che occorre esercizio per riconoscere i propri movimenti originari, quelli che legano corpo e parola, e poi metterli alla prova nella partita della vita, e poi di nuovo allenarsi e di nuovo giocare. E scrivere, qualche volta. Non troppo, dopo che si sono imparate le regole del gioco così bene che si potrebbe fare l’arbitro.
(Tra parentesi, com’è difficile giocare e fare l’arbitro! Raccomanderei almeno un’attenzione: se fate l’arbitro non vestitevi come i giocatori di una delle due squadre e se giocate in una delle due squadre non mettetevi a fischiare rigori).

 

5. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori?

Perché non siamo (stati) un paese di lettori di romanzi, di cronache e di biografie. E adesso che il romanzo, la cronaca e le biografie sono diventate materia di scambio mediatico perché narrabili (notiziabili, si dice?), la pretesa di questi “lettori” di accostarsi alla poesia come ci si accosta ai gialli produce delusione.
Sono abbastanza convinto, inoltre, che la poesia non sia destinata ai grandi numeri di lettori, ai quali può forse arrivare una diversa versione popolareggiante, che veicola analoghi temi e simili intenti formali. Quella cultura popolare che un tempo incontrava Dante, Ariosto e Pascoli, Verdi e Puccini. Oggi però non c’è più nulla di popolare; c’è il pop, che è la produzione industriale di un oggetto culturale da piazzare sul mercato più vasto a disposizione. Allora non restano che esperienze individuali che si incontrano, se va bene in reticoli o crocevia di molti sentieri.
Il lettore di poesia è incerto, diffidente, totalizzante, ignorante, entusiasta, coltissimo… e cerca sempre nel rapporto con la poesia qualcosa che lo riguardi, che gli parli di lui, che lo svegli, anche a torto, ma non una forma di intrattenimento.

 

6. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Ci siamo buttati tutti sulla chiacchiera furiosa intorno all’ultimo istantaneo capolavoro (ah, Leopardi, e la sua “menstrua beltà”, quelli sì che erano tempi!), sull’ultimo fichissimo modo di dire… e pretendiamo di leggere poesia? Quella ha bisogno di tempo – tempo, silenzio e solitudine. Un’altra cosa. Il tragitto dalla parola popolare a quella della cosiddetta cultura alta si è interrotto: non c’è più una produzione popolare di lingua, c’è invece una popolazione che ripete una lingua prodotta da influenzatori stipendiati dal mercato; anzi il tragitto forse è invertito: i poeti e gli scrittori credono di contemporaneizzarsi meglio se adottano la lingua degli influenzatori del mercato. E le loro forme di comunicazione.
Questo per dire che la responsabilità è di tutti.
Ma una rinnovata attenzione per la lingua (la mater-materia della poesia) sarebbe già qualcosa.

 

7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Essere sinceramente appassionati. E/o ammaliati, scoperti, abbandonati, provocati, odiati, perseguitati, esaltati dalla poesia.

 

8. Gli Instapoets aumentano le possibilità di avvicinare nuovi lettori agli scaffali di poesia?

No.

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Come si fa a rispondere? Non sono sicuro che vorrei, però, che si leggesse più poesia al patto di ridurre la poesia a barzelletta o effettaccio emotivo rimbalzabile istantaneamente a chissà chi. A quel punto, sarebbe meglio che se ne leggesse di meno. Forse anche niente.

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

Propongo una non ironica ma stratificata risposta intertestuale: l’ultima lassa di La poesia è una passione? di Vittorio Sereni:

Sì li ho amati anch’io questi versi…
anche troppo per i miei gusti. Ma era
il solo libro uscito dal bagaglio
d’uno di noi. Vollero che li leggessi.
Per tre per quattro
pomeriggi di seguito scendendo
dal verde bottiglia della Drina a Larissa accecante
la tradotta balcanica. Quei versi
li sentivo lontani
molto lontani da noi: ma era quanto restava,
un modo di parlare tra noi –
sorridenti o presaghi fiduciosi o allarmati
credendo nella guerra o non credendoci –
in quell’estate di ferro.
Forse nessuno l’ha colto così bene
questo momento dell’anno. Ma
– e si guardava attorno tra i tetti che abbuiavano
le prime serpeggianti luci cittadine –
sono andati anche loro di là dai fiumi sereni,
è altra roba altro agosto
non tocca quegli alberi o quei tetti,
vive e muore e sé piange
ma altrove, ma molto molto lontano da qui.

 

Intervista a cura di Andrea Cati

Intervista al poeta: Umberto Fiori

Umberto Fiori è nato a Sarzana nel 1949. Dal 1954 vive a Milano, dove si è laureato in filosofia. Negli anni ’70 ha fatto parte, come cantante e autore di canzoni, degli Stormy Six, uno dei gruppi storici del rock italiano. In seguito ha collaborato con il compositore Luca Francesconi (per il quale ha scritto due libretti d’opera e numerosi altri testi), con il fotografo Giovanni Chiaramonte e con i videoartisti di Studio Azzurro. È autore di saggi e interventi critici sulla musica (Scrivere con la voce, 2003) e sulla letteratura (La poesia è un fischio, 2007), di un romanzo, La vera storia di Boy Bantàm (2007) e del Dialogo della creanza (2007).
Il suo primo libro di poesia, Case, è uscito nel 1986 per San Marco dei Giustiniani. Sono seguiti, per Marcos y Marcos, Esempi (1992, 2004), Chiarimenti (1995), Parlare al muro (con immagini del pittore Marco Petrus, 1996), Tutti (1998) e La bella vista (2002). Del 2009 è Voi, Mondadori. Nel gennaio 2014 è uscito un Oscar Mondadori (Poesie 1986-2014) che comprende i libri pubblicati, più un inedito.

 

1. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?

Mi è difficile parlare in generale della poesia (e del suo “stato di salute”). Se per poesia si intende un genere letterario, o una branca dell’editoria, tutti sanno che oggi in Italia non sta troppo bene. È una cosa che si sente ripetere da anni, ma mi sembra che non porti se non a inutili lamentazioni. Se invece parliamo di poesia in assoluto, le cose cambiano. Chiedersi come sta, la poesia, è come chiedersi come sta l’eros. Se lo “stato di salute” dei due – eros e poesia – peggiorasse fino a esiti estremi, non lo sapremmo, perché con loro saremmo finiti anche noi umani.

 

2. Ma, prima di tutto, cos’è per te la poesia?

La poesia è il legame che ho sentito fin da bambino con le parole e con il mondo.

 

3. E chi sono i tuoi maestri?

Indicare i propri maestri può essere fonte di equivoci. Il maestro è per definizione superiore all’allievo, ma il suo riconoscimento da parte del presunto allievo può essere un modo, da parte dell’allievo, per impadronirsi del suo presunto maestro, autoincensarsi e pavoneggiarsi. Se io dicessi, mettiamo, che il mio maestro è Dante, più che rendere omaggio a Dante pretenderei –implicitamente – di essere un suo diretto erede e prosecutore. Il che, evidentemente, è ridicolo. Più che identificare i miei “maestri”, quindi, mi sentirei di indicare alcuni tra gli autori che ho più ammirato e studiato e dai quali ho cercato di imparare qualcosa. Escludendo per brevità gli antichi, direi Baudelaire, Leopardi, Montale (soprattutto Ossi di seppia) e Kafka (che non è un poeta, ma forse qualcosa di più). Quelli da cui ho avuto la fortuna di ricevere ammaestramenti diretti (consigli, critiche, incoraggiamenti) sono Vittorio Sereni, Franco Fortini e Franco Loi.

 

4. Che cosa occorre per diventare un poeta?

Non credo che ci sia un metodo valido per tutti e in ogni tempo. Ciascun poeta diventa tale attraverso percorsi diversi, a volte contrastanti. E poi, la qualifica di “poeta” – soprattutto oggi – è molto equivoca e controversa. Dire che qualcuno “è un poeta” può costituire un giudizio di valore (ormai un po’ fuori corso), o invece, semplicemente, la constatazione di una posizione pubblicamente riconosciuta (e precaria) nel quadro della letteratura di un certo tempo. In una poesia di Sereni, Poeta in nero (in Stella variabile), si parla di un personaggio che in silenzio si esibisce per strada – vestito di nero, appunto, in piedi su uno sgabello – con un cartello che dice: “Ich bin stolz ein Dichter zu sein” (sono fiero di essere un poeta). Ecco, mi pare che proprio questa esibizione (Sereni non lo dichiara, lo sottintende) sia l’opposto della poesia. Ma non voglio sfuggire alla domanda. Per diventare un poeta occorre un’altissima attenzione per il mondo, un profondo ascolto delle parole e della propria voce. Occorre entusiasmo, e ritegno, e spietata autocritica. Occorre un’intensa idiozia e una rigorosa razionalità; una speranza incrollabile, e una lucida disperazione. E poi occorre fatica, orecchio, pazienza, costanza, studio, umiltà.

 

5. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori?

Anche questa è una cosa che si sente ripetere da anni. Credo che una delle ragioni sia che per suonare uno strumento, o costruire un ponte, o fare un goal, è necessaria una tecnica, e chi non ce l’ha non può nascondere la propria inettitudine; la poesia invece, apparentemente, è qualcosa che tutti possono fare: basta saper leggere e scrivere, basta un foglio e una penna (o un computer). A me non pare, comunque, che la situazione sia molto peggiorata rispetto al passato. Non credo che ai tempi di Montale o di Caproni i lettori di poesia fossero tanti di più; era il prestigio culturale della poesia a essere maggiore (e di conseguenza la sua responsabilità). Oggi sono aumentati i pretesi poeti (fake-poets), e l’idea di poesia si è polverizzata e diffusa, fino a costituire un allegro miraggio di massa fra i tanti. Certi sedicenti poeti danno l’impressione di non leggere nemmeno se stessi.

 

6. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Non me la sento di indicare delle responsabilità. E poi, non credo serva a molto parlare della poesia come di un valore culturale da difendere, predicare, diffondere. Come la natura in un famoso frammento di Eraclito, la poesia è la “sempre salva”. Oggi pensiamo di dover salvare anche la natura: se può essere salvata (da noi), ciò implica che può anche essere annientata (sempre da noi). Ma forse la “salvezza” della natura (della poesia) travalica e precede la nostra volontà.

 

7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Non saprei proprio. Io ci ho provato per anni, come insegnante, come poeta e come critico. Ma non mi sento di indicare un “metodo”, anche perché i risultati sono incerti. Direi che si procede per contagio. Ma l’infezione non è garantita.

 

8. Gli instapoets aumentano le possibilità di avvicinare nuovi lettori agli scaffali di poesia?

Instapoets? A stento so cosa sono; ma posso facilmente immaginarlo (certe “novità” si conoscono già prima che esplodano, per essere presto dimenticate). Chissà, magari qualche lettore di instapoetry sarà stimolato a leggere un libro di poesia. E magari qualche compratore di souvenir di plastica del David di Michelangelo sarà stimolato a studiare la scultura…

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Bisognerebbe chiederlo a un sociologo. Io la poesia mi limito a scriverla (quando ci riesco).

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

I primi che mi vengono in mente sono l’inizio di un testo del mio libro d’esordio (Case, 1986) intitolato Sviluppo (poi Sguardo), due versi che mi sembrano un po’ la sintesi di molte delle cose che ho scritto: “Più grande di tutto è lo sguardo, / ma le case sono più grandi”.

 

 

Intervista a cura di Andrea Cati e Giulia Martini