Henrik Nordbrandt


Tanto ho pensato a te
e ho scritto tanto di te
senza proprio sapere chi tu fossi.
In tante e tante camere ho dormito
senza averti al mio fianco
e tante son le case
nelle quali ho abitato, senza di te.
Tante son le città in cui non ti ho incontrato.

Tante sono le cose che ho esaurito
o smarrito per via verso di te,
e tante possibilità ho sprecato,
tante vite che la tua presenza qui e ora
mi fa sentire perdute
che ormai ti posso vedere solo
come la luce primaverile che talvolta
sfiora la tua gota o accende l’ardore dei tuoi occhi
lasciando le ombre ancora più fredde e più profonde.

Poesia d’amore del novecento (Crocetti, 2006), trad. it. di Maria Giacobbe

Henrik Nordbrandt

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Da ieri

Sono diventato vecchio da ieri
e la mia stanza non vuole più

lasciarmi. I mobili consunti
e le cose che abbiamo raccolto

in comune mi torturano d’improvviso
come lamette: piccoli barbigli

che avvelenati dalla luce di settembre
non fanno che affondare sempre più

se mi volto a cercarti
o cerco di svincolarmi.

Il nostro amore è come Bisanzio (Donzelli, 2000), a cura Bruno Berni

Henrik Nordbrandt


Sorriso

Quando ti vidi in sogno
ti voltasti verso di me

con il dito sul labbro
e le sopracciglia alzate

sorridendo, prima di continuare
camminando sulle punte

attraverso la stanza
illuminata dalla luna, abbandonata,

che d’improvviso compresi
avrebbe rappresentato la mia vita.

Il nostro amore è come Bisanzio (Donzelli, 2000), a cura e traduzione di B. Berni

Henrik Nordbrandt

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Cominciai presto, a grande distanza,
quando le mie parole erano ancora solo parole.
A ora di pranzo erano diventate pietre,
quando le pietre sembravano troppo leggere
e i miei passi continuavano la memoria
che non riusciva più a tenergli dietro.

La strada era ancora al suo inizio
più incerta a ogni istante
che superava le stesse grigie rocce.
Venni scoperto dalla mia ombra,
quando l’ombra scomparve sotto di me
ma non abbastanza a lungo da fermare il mio discorso.

Ciò che dicevo non riusciva più
a sopportare il peso del tempo che passava.
Perciò avanzavo camminando all’indietro.
Lancio dopo lancio le pietre mi raccoglievano
dal paesaggio sul quale cadevano.
Il senso di tutto divenne il suono

della mia mezza impresa. Non andava.
Non era più possibile camminare
laddove l’incedere era ascoltare la propria fine.
Laddove le pietre pronunciavano forte il proprio peso
e ogni parola soppesava la sua particolare pietra
man mano che le raccoglievo.

Così abbiamo costruito la Casa di Dio.

 

La casa di Dio (Kolibris, 2014)