Giorni
Combaciano in un giorno che sollevato al cielo, di colpo
libera la primavera degli ospedali, da cui
un peso ne caveremo, come sporgono dalle finestre
voci di malattia, vite banali come allegre, un alito. Il dissimile
dall’estro, da ogni abbandono. Il suono del respiro
è semplice, roco, un motore di sangue inaudito.
Tuona, mentre cammina quel che non sono, tra i viali
dal Policlinico e così mi guarda alla finestra dove muore,
solo, mio padre. E guarda sottoterra le nuvole
mosse e toccate, nascono luci da generatori
in un tilt si riposa la paura, nella gola nera passano
transiti e verbi, impossibili sono certi ritorni degli anni
– e in fondo non è fin qui che arrivano i loro fantasmi?
ogni domani, ogni promessa, ogni sguardo nel buio
ogni terrazzo di Roma, ogni albergo che ci accoglie stanotte
e mai più? soffrono le inesistenze leggere, che hanno corpo
e albe sempre lecite – come noi, che lo siamo, finalmente
ma non precipita la loro rivelazione, non dice cosa sono,
come non sussurra un canto contrario. Due hanno un cielo
perenne ed aperto. Uno sta nel camminare dentro
la città che se ne muore, dentro il Ghetto a rivedere
passi e sbagli che si fanno, alleati. L’altro a dare sangue
al prossimo pericolo, a cercare primavere meno cupe
e non contare i giorni veri – e poi c’è un un calendario,
per tutti e per nessuno.
© Inedito di Mario De Santis