Intervista a Franco Buffoni


Silvia è un anagramma è uscito da poco più di un mese da Marcos y Marcos e ha suscitato forti reazioni sia di approvazione sia di rifiuto. Abbiamo deciso di rivolgere all’autore, Franco Buffoni, alcune domande molto dirette.

Con Silvia è un anagramma sembrerebbe che tu ti sia molto esposto…

L’ho fatto anche in libri precedenti, ma evidentemente includere il fattore “O” (l’omosessualità) nel novero delle possibilità di lettura della vita e dell’opera di Giacomo Leopardi risulta ancora indigeribile per il “neutro accademico eterosessuale” italiano.

Sulle prime non hai voluto nemmeno rispondere alle “accuse”…

Quando chi critica dimostra palesemente di non possedere una bibliografia aggiornata sui temi inerenti all’orientamento sessuale e agli studi di genere, ti passa proprio la voglia di replicare. Su certe questioni in Italia – persino tra persone “colte” – sembra di vivere in un universo parallelo rispetto al resto del mondo occidentale.

Ma da che cosa deriva questa condizione di molta cultura italiana?

Deriva dal fatto che una numerosa schiera di accademici e letterati non ha mai preso sul serio la dichiarazione di trent’anni fa (17 maggio 1990) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: l’omosessualità è una variante naturale dell’umana sessualità. Quindi: nessuna malattia e di conseguenza nessuna cura o terapia riparativa. E nessuno stigma.

Da cui consegue…

Consegue che – non esistendo più un modello unico di orientamento sessuale da darsi a priori – si può finalmente accedere con nuovo sguardo anche alla storia della poesia e della letteratura italiana.

A tale modello unico, però, buona parte dell’accademia italiana è ancora profondamente legata.

Per questo in Silvia è un anagramma parlo di una persistente patina di “neutro accademico eterosessuale”.

Come giudichi quel tuo collega accademico che – a pochi giorni dall’uscita del libro e pur dichiarando di non averlo letto – l’ha stroncato con veemenza…

E’ riuscito a porre Silvia è un anagramma al centro dell’attenzione come nessun ufficio stampa sarebbe mai riuscito a fare. Tanto che subito Gilda Policastro ne ha parlato su Repubblica. In altri tempi avrei risposto che è stato un utile idiota; adesso mi limito a riportare quanto gli ha replicato il filologo classico Daniele Ventre, traduttore in esametri dell’Iliade e dell’Odissea per Mesogea: “Una cosa è il voler essere prudenti nei confronti di una tesi storiografica (posizione legittima), altra cosa è lo scatto isterico di certa accademia in vena di rimozione di idee scomode. Comunque la si voglia mettere, questa accademia fa un pessimo servizio al dibattito filologico: nasconde la propria omofobia dietro il ditino “no-no” della pseudo-acribia, troncando sul netto la possibilità di qualunque dibattito civile. In tal modo non falsifica (nel senso epistemologico) la tesi storiografica: semplicemente mina la propria stessa credibilità. E al di là dell’idea che si abbia delle “carte” (in senso storico-filologico), e dell’impressione che si abbia dei fatti (in senso vichiano), Silvia è un anagramma ha perlomeno il merito di portare la luce in una sentina di polvere facendo scappare i topi e le loro potenziali falsificazioni critiche, effetto che pochi libri di filologia modernistica e antichistica possono vantare di produrre. E scusate se è poco, come si suol dire in simili circostanze.”

Leopardi “primo dei moderni” diceva Luperini, e ora grazie a te la definizione ha un nuovo, veridico sapore.

Il libro si propone come una sorta di giustizia riparativa nei confronti di persone che hanno subito un torto. E’ inteso nel senso di una normalizzazione delle reazioni emotive di fronte alla non univocità del desiderio amoroso. Perché censura e omissioni sono sempre atti patetici e violenti.

Conoscere l’identità sessuale di un autore ci aiuta a leggere meglio il contesto psicologico e culturale nel quale si è prodotta l’opera?

L’eterosessualità di Foscolo è ben sottolineata nei nostri manuali e insegnata nelle scuole. Sugli autori e le autrici omosessuali invece prevalgono la reticenza e la vergogna. Occorre una “messa a sistema”, come osserva il critico Dario Accolla. Il quale fa anche notare che i cultori dell’irrilevanza della sessualità di Leopardi sono poi le stesse persone che affermano che l’omosessualità non ne inficerebbe comunque il genio poetico. Evidentemente non è un dettaglio da poco. Serve, ad esempio, da parametro per identificare l’omofobia di costoro. Nel senso etimologico del termine: paura di. E si offendono quando si fa loro notare che sono intrisi di omofobia culturale.

Come l’utile idiota?

Diciamo di sì.

Paura, dunque?

Sì, scoprire che il sentimento amoroso è lo stesso – quale che sia la nostra identità di genere – disturba, spaventa persino chi compila le antologie. Come quella sulle poesie d’amore da Guittone a Raboni, che non include un solo verso di Sandro Penna.

Molti continuano a ripetere che nell’Ottocento le espressioni affettuose tra amici erano comuni nei carteggi…

Che scoperta! Ma nelle lettere di Leopardi a Ranieri c’è ben altro. Basta leggerle davvero.

E’ come se tu avessi sollevato un velo. Molti – soprattutto giovani – te l’hanno voluto dimostrare: per esempio con gli oltre cinquemila like ricevuti dall’anticipazione su Le Parole Le Cose

Sì, l’ho visto e mi ha fatto piacere. Vorrei però aggiungere due riflessioni. Silvia è un anagramma si compone di 336 pagine, e prende le mosse da Leopardi, ma poi dedica ampio spazio anche a Pascoli, a Montale e a numerosi altri personaggi otto-novecenteschi. Dando rilievo ai codici (Zanardelli e Rocco) e alle legislazioni dell’Italia pre-unitaria e post-fascista. Serviva un titolo evocativo e facilmente memorizzabile…

Quindi il vero obiettivo…

Invece di Lopardi, Pascoli e Montale avrei potuto scegliere tre ufficiali di marina, o tre capitani d’industria, o tre operai. L’obiettivo “per giustizia biografica” si è fissato su tre poeti solo perché, da poeta, è l’ambito che conosco meglio. Comunque per leggere recensioni e giudizi:
https://www.francobuffoni.it/saggistica/silvia_e_un_anagramma.html

Foto di Dino Ignani

Giacomo Leopardi

L’infinito

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
De l’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminato
Spazio di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e ’l suon di lei. Così tra questa
Infinità s’annega il pensier mio:
E ’l naufragar m’è dolce in questo mare.

 

Versi (Interno Poesia Editore, 2019)

Giacomo Leopardi

leopardi
Ultimo canto di Saffo

Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l’insueto allor gaudio ravviva
Quando per l’etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso de’ Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta
Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell’onda.

Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l’empia
Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
De’ colorati augelli, e non de’ faggi
Il murmure saluta: e dove all’ombra
Degl’inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l’odorate spiagge.

Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell’indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.

Morremo. Il velo indegno a terra sparto,
Rifuggirà l’ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator de’ casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D’implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s’invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l’atra notte, e la silente riva.

 

Canti (Garzanti, 2007)