Galway Kinnell

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On the Tennis Court at Night

We step out on the green rectangle
in moonlight. The lines glow,
which for many have been the only lines
of justice. We remember
the thousand erased trajectories
of that close-contested last set –
blur of volleys, soft arcs of drop shots,
huge ingrown loops of lobs with topspin
that went running away, crosscourts recrossing
down to each sweet (and in exact proportion, bitter)
☆ in Talbert and Olds’ The Game of Doubles in Tennis.
The breeze has carried them off but we still hear
the mutters, the doublefaulter’s groans,
cries of “Deuce!” or “Love two!”,
squeak of tennis shoes, grunt of overreaching,
all dozen extant tennis quips – “Just out!”
or, “About right for you?” or, “Want to change partners?” –
and baaah of sheep translated very occasionally
into thonk of well-hit ball, among the pure
right angles and unhesitating lines
of this arena where every man grows old
pursuing that repertoire of perfect shots,
darkness already in his strokes,
even in death cramps squeezing a tennis ball
for arm strength, to the disgust of the night nurse,
and smiling; and a few hours later found dead –
the smile still in place but the ice bag
left cooling the brow now mysteriously
icing the right elbow – causing
all those bright trophies to slip permanently,
though not in fact much farther, out of reach,
all except for the thick-bottomed young man
about to doublefault in soft metal on the windowsill:
“Runner-Up Men’s Class B Consolation Doubles
St. Johnsbury Kiwanis Tennis Tournament 1969”…
Clouds come over the moon;
all the lines go out. November last year
in Lyndonville: it is getting dark,
snow starts falling, Zander Rubin wobble-twists
his worst serve out of the black woods behind him,
Tommy Glines lobs into a gust of snow,
Don Bredes smashes at where in theory the ball
could be coming down, the snow blows
and swirls about our legs, darkness flows
across a disappearing patch of green-painted asphalt
in the north country, where four souls,
half-volleying, poaching, missing, grunting,
begging mercy of their bones, hold their ground,
as winter comes on, all the winters to come.

 

*


Di sera sul campo da tennis

Usciamo sul rettangolo verde
al chiaro di luna. Luminose
le righe che per molti sono state, sole,
le righe della giustizia. Ricordiamo
le mille traiettorie cancellate
di un combattuto ultimo set –
aloni di volée, morbidi archi di palle corte,
enormi curve richiuse di pallonetti in top
che scappavano filando, tiri incrociati riincrociati
verso ogni dolce (e in proporzione esatta amara)
☆ de Il gioco in doppio nel tennis di Talbert e Olds.
Li ha portati via il vento, ma sentiamo ancora
i mugugni e, sul doppio fallo, i lamenti,
le grida di “Zero due!” o di “Parità!”,
lo stridio delle scarpe, il grugnito nell’allungo,
tutti i lazzi da tennis che ci sono – “Fuori di poco!”
o “Ti pareva buona, quella?” o “Vuoi cambiare coppie?” –
e i baaah da pecora tradotti, molto occasionalmente,
nel thonk di un gran bel colpo, fra i puri
angoli retti e le righe perentorie
di quest’arena dove ogni uomo invecchia
vagheggiando quel repertorio di colpi perfetti,
l’oscurità presente già nei gesti,
fin negli spasmi della morte stringendo una pallina –
l’infermiera di notte disgustata – per rafforzare il braccio,
sorridendo; e qualche ora più tardi essere poi trovati morti –
ancora lì il sorriso, ma la borsa del ghiaccio
che stava sulla fronte ora, misteriosamente,
a raffreddare il gomito destro – di modo che
tutti i trofei splendenti sfuggono, perpetuamente –
seppure non tanto più in là, effettivamente – fuori portata,
con l’eccezione del giovanotto dal didietro grosso prossimo
al doppio fallo, fatto in metallo, sul davanzale:
“Premio di Consolazione – Doppio Maschile – Categoria B
Torneo di Tennis – St. Johnsbury Kiwanis – 1969”…
Arrivano le nuvole, sopra la luna,
si spengono tutte le righe. A novembre, l’anno scorso
a Lyndonville: diventa scuro,
la neve prende a cadere, Zander Rubin fa roteare
il suo peggior servizio dai boschi neri alle sue spalle,
Tommy Glines fa un pallonetto in una raffica di neve,
Don Bredes pronto a schiacciare dove in teoria la palla
forse sta per cadere, soffia la neve
turbinandoci intorno alle gambe, l’oscurità che scorre
su una striscia d’asfalto dipinta in verde che scompare
nelle terre settentrionali, là dove quattro anime,
fra demi-volée e grugniti, invasioni, colpi mancati,
chiedendo pietà alle ossa tengono il campo
nell’inverno che viene, per ogni inverno che verrà.

 

© Traduzione di Simone Pagliai

Galway Kinnell

Galway-Kinnell-1200

 

Aspetta

Aspetta, per adesso.
Diffida di tutto se devi.
Ma fidati delle ore. Non ti hanno forse
portato ovunque, fino a adesso?
Eventi personali si faranno nuovamente interessanti.
I capelli si faranno interessanti.
Il dolore si farà interessante.
Le gemme che si schiudono fuori stagione si faranno interessanti.
Guanti usati si faranno nuovamente graziosi;
le loro memorie sono ciò che dà loro
il bisogno di altre mani. La desolazione
degli amanti è la stessa: quell’immenso vuoto
ricavato da esseri così piccoli quali noi siamo
chiede di essere riempito; il bisogno
del nuovo amore è fedeltà al vecchio.

Aspetta.
Non andare troppo presto.
Sei stanco. Ma tutti sono stanchi.
Ma nessuno è stanco abbastanza.
Aspetta solo un po’ e ascolta:
musica di capelli,
musica di dolore,
musica di telai che intessono di nuovo i nostri amori.
Sii lì per sentirla, sarà la sola volta,
più di tutto per sentire la tua esistenza intera,
ripetuta dalle pene, recitare se stessa fino al completo esurimento.

 

da Nuovi poeti americani (Einaudi, 2006), trad. it. E. Biagini