Intervista a Franco Buffoni


Silvia è un anagramma è uscito da poco più di un mese da Marcos y Marcos e ha suscitato forti reazioni sia di approvazione sia di rifiuto. Abbiamo deciso di rivolgere all’autore, Franco Buffoni, alcune domande molto dirette.

Con Silvia è un anagramma sembrerebbe che tu ti sia molto esposto…

L’ho fatto anche in libri precedenti, ma evidentemente includere il fattore “O” (l’omosessualità) nel novero delle possibilità di lettura della vita e dell’opera di Giacomo Leopardi risulta ancora indigeribile per il “neutro accademico eterosessuale” italiano.

Sulle prime non hai voluto nemmeno rispondere alle “accuse”…

Quando chi critica dimostra palesemente di non possedere una bibliografia aggiornata sui temi inerenti all’orientamento sessuale e agli studi di genere, ti passa proprio la voglia di replicare. Su certe questioni in Italia – persino tra persone “colte” – sembra di vivere in un universo parallelo rispetto al resto del mondo occidentale.

Ma da che cosa deriva questa condizione di molta cultura italiana?

Deriva dal fatto che una numerosa schiera di accademici e letterati non ha mai preso sul serio la dichiarazione di trent’anni fa (17 maggio 1990) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: l’omosessualità è una variante naturale dell’umana sessualità. Quindi: nessuna malattia e di conseguenza nessuna cura o terapia riparativa. E nessuno stigma.

Da cui consegue…

Consegue che – non esistendo più un modello unico di orientamento sessuale da darsi a priori – si può finalmente accedere con nuovo sguardo anche alla storia della poesia e della letteratura italiana.

A tale modello unico, però, buona parte dell’accademia italiana è ancora profondamente legata.

Per questo in Silvia è un anagramma parlo di una persistente patina di “neutro accademico eterosessuale”.

Come giudichi quel tuo collega accademico che – a pochi giorni dall’uscita del libro e pur dichiarando di non averlo letto – l’ha stroncato con veemenza…

E’ riuscito a porre Silvia è un anagramma al centro dell’attenzione come nessun ufficio stampa sarebbe mai riuscito a fare. Tanto che subito Gilda Policastro ne ha parlato su Repubblica. In altri tempi avrei risposto che è stato un utile idiota; adesso mi limito a riportare quanto gli ha replicato il filologo classico Daniele Ventre, traduttore in esametri dell’Iliade e dell’Odissea per Mesogea: “Una cosa è il voler essere prudenti nei confronti di una tesi storiografica (posizione legittima), altra cosa è lo scatto isterico di certa accademia in vena di rimozione di idee scomode. Comunque la si voglia mettere, questa accademia fa un pessimo servizio al dibattito filologico: nasconde la propria omofobia dietro il ditino “no-no” della pseudo-acribia, troncando sul netto la possibilità di qualunque dibattito civile. In tal modo non falsifica (nel senso epistemologico) la tesi storiografica: semplicemente mina la propria stessa credibilità. E al di là dell’idea che si abbia delle “carte” (in senso storico-filologico), e dell’impressione che si abbia dei fatti (in senso vichiano), Silvia è un anagramma ha perlomeno il merito di portare la luce in una sentina di polvere facendo scappare i topi e le loro potenziali falsificazioni critiche, effetto che pochi libri di filologia modernistica e antichistica possono vantare di produrre. E scusate se è poco, come si suol dire in simili circostanze.”

Leopardi “primo dei moderni” diceva Luperini, e ora grazie a te la definizione ha un nuovo, veridico sapore.

Il libro si propone come una sorta di giustizia riparativa nei confronti di persone che hanno subito un torto. E’ inteso nel senso di una normalizzazione delle reazioni emotive di fronte alla non univocità del desiderio amoroso. Perché censura e omissioni sono sempre atti patetici e violenti.

Conoscere l’identità sessuale di un autore ci aiuta a leggere meglio il contesto psicologico e culturale nel quale si è prodotta l’opera?

L’eterosessualità di Foscolo è ben sottolineata nei nostri manuali e insegnata nelle scuole. Sugli autori e le autrici omosessuali invece prevalgono la reticenza e la vergogna. Occorre una “messa a sistema”, come osserva il critico Dario Accolla. Il quale fa anche notare che i cultori dell’irrilevanza della sessualità di Leopardi sono poi le stesse persone che affermano che l’omosessualità non ne inficerebbe comunque il genio poetico. Evidentemente non è un dettaglio da poco. Serve, ad esempio, da parametro per identificare l’omofobia di costoro. Nel senso etimologico del termine: paura di. E si offendono quando si fa loro notare che sono intrisi di omofobia culturale.

Come l’utile idiota?

Diciamo di sì.

Paura, dunque?

Sì, scoprire che il sentimento amoroso è lo stesso – quale che sia la nostra identità di genere – disturba, spaventa persino chi compila le antologie. Come quella sulle poesie d’amore da Guittone a Raboni, che non include un solo verso di Sandro Penna.

Molti continuano a ripetere che nell’Ottocento le espressioni affettuose tra amici erano comuni nei carteggi…

Che scoperta! Ma nelle lettere di Leopardi a Ranieri c’è ben altro. Basta leggerle davvero.

E’ come se tu avessi sollevato un velo. Molti – soprattutto giovani – te l’hanno voluto dimostrare: per esempio con gli oltre cinquemila like ricevuti dall’anticipazione su Le Parole Le Cose

Sì, l’ho visto e mi ha fatto piacere. Vorrei però aggiungere due riflessioni. Silvia è un anagramma si compone di 336 pagine, e prende le mosse da Leopardi, ma poi dedica ampio spazio anche a Pascoli, a Montale e a numerosi altri personaggi otto-novecenteschi. Dando rilievo ai codici (Zanardelli e Rocco) e alle legislazioni dell’Italia pre-unitaria e post-fascista. Serviva un titolo evocativo e facilmente memorizzabile…

Quindi il vero obiettivo…

Invece di Lopardi, Pascoli e Montale avrei potuto scegliere tre ufficiali di marina, o tre capitani d’industria, o tre operai. L’obiettivo “per giustizia biografica” si è fissato su tre poeti solo perché, da poeta, è l’ambito che conosco meglio. Comunque per leggere recensioni e giudizi:
https://www.francobuffoni.it/saggistica/silvia_e_un_anagramma.html

Foto di Dino Ignani

Maddalena Bergamin

a Franco Buffoni

Setticemia

Malattia infettiva generalizzata
con sintomatologia caratteristica
che pochi tuttavia sono in grado
d’inquadrare, è sempre troppo
tardi, anzi troppo presto
per rendersene conto
se gli anni sono appesi
sotto al Venti e il vento
li sbandiera come i panni
e strappa una t-shirt
dal filo del bucato
la butta sull’asfalto
laggiù, tre piani
sotto.

Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90. Vol. 2 (Interno Poesia Editore, 2020)

Intervista all’editore: Roberto Cicala

Roberto Cicala è editore di Interlinea, presso cui dirige collane come “Lyra”, fondata oltre vent’anni fa con Maria Corti, Luciano Erba, Franco Buffoni e Giovanni Tesio. Critico letterario (scrive per “Repubblica” e “Avvenire”), ha all’attivo molte edizioni di inediti di Rebora e Vassalli ed è tra i maggiori esperti italiani di editoria, materia che insegna nelle università Cattolica di Milano e di Pavia.

 

1. Cosa vuol dire per te svolgere il mestiere di editore?

Vivo il mestiere dell’editore come un impegno per contribuire alla cultura collettiva: scopro, seleziono e organizzo testi e contenuti in forma di libri per testimoniare un’idea, una storia originale, un valore che altrimenti resterebbe senza voce e senza possibilità di essere ascoltato. Un traguardo ambizioso? Se non lo fosse non avrebbe senso una vita respirando ogni giorno carta e inchiostro con scarse soddisfazioni economiche ma alte realizzazioni morali. Con 1500 libri alle spalle credo che l’editoria sia una vocazione.

 

2. Che cosa ti rende felice di questo mestiere e che cosa no?

Trovare forme del pensiero sempre nuove per lettori altrettanto nuovi o fedeli dà senso al lavoro quotidiano di mediazione culturale: progettare e fare libri diventa così una ragione d’essere e crea quella sensazione di fare qualcosa di buono, e di bello, per gli altri che Giulio Einaudi definiva «la felicità di fare libri». Il rovescio della medaglia sta nella società italiana che non sostiene la crescita di cultura, soprattutto a scuola, presentando spesso il libro come un di più noioso e poco utile, oltre a ritenere il lavoro intellettuale qualcosa di gratuito e non necessariamente remunerabile, fuori diritti. Con questa logica, molto in voga su internet, purtroppo non si va molto lontano e non si crea libertà di pensiero.

 

3. Passiamo ora alla poesia. Intanto: cos’è per te la poesia?

Nella mia esperienza la poesia è una testimonianza resa attraverso una parola mai convenzionale ma necessaria, che si esprime con colpi d’ala, con scarti dalla quotidianità, con provocazioni positive. E facendo così è una parola che lascia il segno, come hanno fatto Rebora, Campana e Sbarbaro alle origini del nostro Novecento. Nonostante ciò la poesia è compagnia, consolazione, stimolo, frontiere superate, insomma quelle parole che spesso non troviamo per spiegare la nostra vita ingarbugliata e contraddittoria.

 

4. Quanto è importante la poesia per Interlinea?

La poesia vale per la nostra piccola casa editrice di cultura tanto quanto ci impegna in letture, scelte, idee, confronti, ricerche, ad esempio sul versante della poesia cosiddetta civile (grazie al festival internazionale di Vercelli) oppure nelle aree della letteratura delle giovani generazioni (grazie alla serie editoriale “Lyra giovani” con il maestro e amico Franco Buffoni). La poesia è necessaria ancor più che importante: è la diversità della parola che altrimenti sarebbe banale, univoca, irregimentata.

 

5-6. A tuo avviso perché siamo più un Paese di poeti che non di lettori e di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Riparto dalle scuole. In quelle italiane non ci abituano a divertirci, stupirci e commuoverci con la poesia. Alcune volte basta una lettura, un incontro inaspettato in un determinato momento emotivo: per me fu L’aquilone di Pascoli alle medie a farmi vibrare con la forza del ritmo delle parole, la storia di ragazzi, aria aperta, giochi e amicizia, amore materno… Ma se non si trova un professore particolarmente appassionato la poesia diventa una materia ostica che è noioso studiare. Ecco, al primo posto per le poche letture degli italiani adulti sta la scuola negli anni della formazione, che significa (per usare una delle categorie dell’Ordine dei libri di Chartier) le istituzioni che fanno programmi poco attraenti e non investono sulle biblioteche scolastiche e sulle ore di lettura. In secondo luogo stanno i media, che snobbano certe forme di cultura e alcuni generi, a parte eccezioni troppo sporadiche, come la celebre lettura della Szymborska da parte di Roberto Saviano a Che tempo che fa in tv. Se poi i librai vendono soprattutto gli autori celebri sui social non è colpa loro; lo è però se riducono sempre di più i metri, o centimetri, lineare di scaffale dedicati ai versi, come se le librerie debbano fare concorrenza alle edicola. Ma, al terzo posto delle responsabilità, sta anche la filiera editoriale, con tutti quegli editori che millantano fama, distribuzione nazionale, recensioni autorevoli e tirature favolose a chi è disposto a pagare per un proprio hobby personale (e fin qui non ci sarebbe nulla di male, come altri pagano per una raccolta di francobolli o di orologi), ma spesso tali aspiranti poeti non capiscono la differenza tra un editore, un tipografo e un disonesto. Anche qui ci sono radici culturali. Credo che queste siano alcune delle ragioni che creano confusione sociale intorno al genere lirico relegandolo quasi in un ghetto da intellettuali o da persone strane.

 

7. Che cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Anche in letteratura la qualità paga, ma paga se c’è un’educazione a riconoscerla ed apprezzarla, non una corsa verso il troppo facile come sta avvenendo oggi. Credo che i festival seri possano aiutare a dare una percezione più accattivante della poesia, grazie all’incontro con temi e autori. Poi è fondamentale prevedere l’accostamento alla parola poetica fin dall’infanzia, nel periodo “Nati per leggere”: pensiamo alla forza ammaliante ed entusiasmante di rime di scrittori come Roberto Piumini o Anna Lavatelli che poi un bambino si porta dentro di sé per tutta la vita, per non dire anche del celebre Alì Babà e i quaranta ladroni di Emanuele Luzzati. Poi i mass media potrebbero naturalmente fare la loro parte, con intelligenza e creatività, senza spettacolarizzazioni verso il basso a tutti i costi. Alla fine bisogna guardarsi sempre allo specchio: ognuno di noi sceglie, compra e regala quella poesia che può appassionare gli altri e far sì che, come le ciliegie e i gialli, un libro tiri l’altro.

 

8. Gli Instapoets avvicinano nuovi lettori agli scaffali di poesia?

Credo che i social siano un passatempo di condivisione virtuale, di emozioni da far girare come una catena di sant’Antonio, ma inducono al mordi e fuggi, alla lettura telegrafica e surf, poco adatta alla profondità lirica, e soltanto in pochi casi penso riescano a indurre a continuare la lettura da un post a un libro. Non è però colpa di Facebook o Instagram in sé ma del contesto sociale che non dà alcun sostegno alla quotidianità dell’atto culturale di un libro. Eppure non sarebbe una chimera se in altri Paesi europei funziona diversamente e le percentuali di lettura sono il doppio dell’Italia.

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Spero davvero che le prossime generazioni leggeranno più poesia grazie anche alla tecnologia, agli audiolibri, agli spazi di bookcrossing pubblici mentre si aspetta un treno, una visita in ospedale, ma soltanto se dalla scuola ai media la poesia diventerà qualcosa di familiare, avvincente, utile. Comunque scegliere bene i libri da parte degli editori aiuta a non creare confusione, a non far nascondere le opere che valgono davvero sotto la montagna delle autoedizioni private.

 

10. Per chiudere l’intervista ci regali qualche tuo verso amato?

L’esperienza di un poeta come Rebora credo sia sembra fondante, per esempio nei versi in cui racconta che «quando morir mi parve unico scampo, / varco d’aria al respiro a me fu il canto: / a verità condusse poesia». Non è di facile lettura, come lo è solo apparentemente una autore che amo molto perché molto contemporanea, Luciano Erba, che chiede a se stesso: «Interroghi l’alfabeto delle cose / ma al tuo non capire niente di ogni sera / sai la risposta di un mazzo di rose?». Sono nel catalogo di Interlinea, come l’esule siriano che ha scritto a memoria Specchi dell’assenza, negli anni in carcere senza carta né inchiostro. Nei giorni in cui il libro è uscito in Italia i telegiornali trasmettevano le immagini della liberazione di Raqqa e lui notava che da alcune case erano stesi lenzuoli con scritti suoi versi come questi che avevano aiutato la rivoluzione: «un uccello / basta / perché non cada il cielo». La poesia può cambiare il mondo,,, Come avviene con Giovanna Vivinetto, la ragazza che Interlinea ha scoperto nel 2018 con il suo diario in poesia in cui racconta il Dolore minimo della sua scelta transessuale: «non mi sono mai conosciuta / se non nel dolore bambino / di avvertirmi a un tratto / così divisa. Così tanto parziale». Sono versi in cui tutti, trascendendo il caso singolo, possono specchiarsi.

 

Intervista a cura di Andrea Cati

Intervista al poeta: Franco Buffoni

Franco Buffoni (Gallarate, 1948) ha pubblicato Suora carmelitana (1997), Il profilo del Rosa (2000), Theios (2001), Guerra (2005), Noi e loro (2008), Roma (2009). L’Oscar Poesie 1975-2012 raccoglie la sua opera poetica. Con Jucci (Mondadori 2014) ha vinto il Premio Viareggio. In seguito sono apparsi Avrei fatto la fine di Turing (Donzelli 2015), O Germania (Interlinea 2015), Poeti (Lietocolle-Pordenonelegge 2017). È autore dei romanzi Più luce, padre (Sossella, 2006), Zamel (Marcos y Marcos 2009), Il servo di Byron (Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2014), Il racconto dello sguardo acceso (Marcos y Marcos 2016). Del 2017 l’opera teatrale Personae edita da Manni. Del 2018 il libro-intervista Come un polittico che si apre, scritto con Marco Corsi per Marcos y Marcos, e il libro di poesia La linea del cielo (Garzanti). Il suo sito è www.francobuffoni.it

 

1. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?

Il criterio di fondo che ho adottato per la scelta degli autori della collana “Lyra Giovani” dell’editore Interlinea (ma ciò vale anche per I Quaderni di Poesia Italiana Contemporanea che dirigo da vent’anni per Marcos y Marcos) è coniugare due obiettivi: l’alta qualità nella ricerca e l’innovazione radicata nella tradizione. Il giovane autore pubblicato in LyraGiovani deve aver studiato e deve conoscere la storia della poesia italiana, oltre a quella latina e qualche letteratura straniera, deve averle introiettate, ma deve poi essere in grado di rinnovare tutto questo con un dettato proprio, con un’autonomia di tipo estetico. Non è facile, è una bella pretesa, lo ammetto. Faccio un esempio, in grande sintesi: Giovanna Cristina Vivinetto e Julian Zhara, due degli autori pubblicati di recente, che rappresentano motivo di interesse anche per chi non sia lettore consueto di poesia. Zhara propone un’innovazione di tipo metrico-stilistico, conosce la metrica italiana in modo approfondito, pur essendo di madrelingua albanese. Tutto lo sforzo che ha compiuto sulla lingua italiana appartiene all’età adulta, quindi l’esito è di grande interesse. Mi ricorda un po’ il rapporto che ha con la lingua italiana la recente vincitrice del Premio Strega Helena Janeczek, che è di madrelingua tedesca: sono casi molti interessanti questi, di autori che si sono appropriati dell’italiano come di un dono consapevole, sono fonte di grandi sorprese. Quindi, nel caso di Zhara, forse prevale il come dire le cose sul che cosa dire. In Vivinetto avviene esattamente il contrario: la sua scrittura è inserita nella tradizione italiana, mi ricorda molto la scrittura poetica anni sessanta-settanta della Maraini, che ha peraltro firmato la prefazione al libro, una scrittura femminista e di tipo rivendicativo; e un po’ anche la scrittura poetica e politica del grande narratore Primo Levi, altrettanto rivendicativa, incentrata sulla sua terribile vicenda biografica. Vivinetto racconta per sé e per gli altri la sua transizione di genere. Qui prevale il che cosa dire sul come dirlo. Vivinetto è tradizionale nella scrittura ed estremamente innovativa nel contenuto, perché è la prima poeta trans in Italia, mentre in Zhara è fondamentale il rapporto innovativo con la lingua italiana e con la sua tradizione metrica. Per quanto riguarda i prossimi titoli in uscita nella collana “Lyra Giovani”: il primo è “Omonimia” di Jacopo Ramonda, autore molto interessante dal punto di vista tecnico, perché propone un’innovazione della poesia in prosa, che nella cultura italiana ha un grande rappresentante in Giampiero Neri. Il secondo è “Trasparenze” di Maria Borio, che oltre a essere poeta è critico letterario e saggista, e cura il sito di Nuovi Argomenti. “Trasparenze” è un’opera che nasce da un progetto hegeliano, strutturato per tesi/antitesi/sintesi: la sintesi è la trasparenza, mentre il puro e l’impuro sono rispettivamente la tesi e l’antitesi. Qui di nuovo l’originalità è anche tematica.

 

2. Ma, prima di tutto, cos’è per te la poesia?

Imposterei questa risposta partendo dal concetto di diario, il journal intime che ho tenuto ininterrottamente dal 1971 al 2006 e che oggi giace secretato fino al 3 marzo 2048 (quando compirò cento anni) al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, insieme agli avantesti di tutti i miei libri, all’epistolario e all’archivio della rivista Testo a fronte. Smisi di tenere il diario quando cominciai a scrivere Più luce, padre (Sossella 2006). In seguito altri docu-fiction Zamel (Marcos y Marcos 2009), Laico alfabeto (Transeuropa 2010), Il servo di Byron (Fazi 2012), La casa di via Palestro (Marcos y Marcos 2012) fino al recente Racconto dello sguardo acceso, hanno assorbito la funzione stabilizzatrice del mio equilibrio psichico svolta in precedenza dal diario. Ma con una differenza essenziale: il diario era scritto solo per me stesso (difatti adesso è secretato al Centro Manoscritti di Pavia fino al 2048 quando compirò cento anni), mentre quando aggiungo una nuova pagina ai miei docu-fiction (passando magari prima attraverso quell’utile prova d’orchestra che per me sono i social), so che molte persone dopo qualche minuto (per esempio su facebook) o dopo qualche mese in cartaceo, potranno leggerla. Non è un caso che in questa risposta io abbia menzionato solo libri di narrativa o docu-fiction. La poesia, cui principalmente devo la mia immagine pubblica, ha svolto e svolge un ruolo molto marginale nella mia presenza sui social. Per due ragioni: sono un poeta da libro, non da singolo testo, quindi preferisco dialogare coi miei lettori sui libri che pubblico (Avrei fatto la fine di Turing, Donzelli 2015; O Germania, Interlinea 2015; Jucci, Mondadori 2014; l’Oscar Poesie 1975-2012; La linea del cielo, Garzanti 2018) piuttosto che su qualche poesia apparsa su un social. La poesia, quando è vera, crea la lingua e sa narrare in modo nuovo. Credo che il/la grande poeta italiano del secolo XXI sarà figlio o nipote di qualcuno che al semaforo tentava di lavarci il vetro. Avrà studiato Lucrezio e Petrarca come noi, ma avrà udito fonemi e respirato aromi che noi non conosciamo: farà digerire tutto questo all’italiano, che resterà italiano ma canterà in modo nuovo.

 

3. E chi sono i tuoi maestri?

In primis Vittorio Sereni, col quale purtroppo ebbi pochi contatti diretti, perché morì giovane, ma alla cui immagine e al cui carisma mi sento tuttora legato. Come scrivo nelle poesie a lui dedicate – “Di quando la giornata è un po’ stanca”, “Vittorio Sereni” e “Vittorio Sereni ballava benissimo” – riconoscevo mio padre in Sereni, e Sereni in mio padre. Entrambi ufficiali dell’esercito italiano, coetanei (Sereni nato nel 13, mio padre nel 14, Sereni morto nell’83, mio padre nell’80), entrambi prigionieri dal 43 al 45. E molto simili nel modo di fare e nel modo di porsi, autorevoli e anche un po’ autoritari. Contatti diretti per molti decenni li ebbi invece con Luciano Erba e Nelo Risi. Soprattutto Risi è stato per me un maestro di etica: abitavamo vicini a Roma, e lo andavo a trovare a via Capo le Case, poi negli ultimi anni a via del Babuino, nella casa della ex moglie Edith Bruck. L’asciuttezza morale e l’estremo rigore ateo del medico Nelo Risi mi hanno insegnato molto, più di quanto non mi abbia insegnato il cattolicesimo pessimistico di impianto francese di Luciano Erba, al quale tuttavia mi legava una profonda simpatia umana. Ti faccio un esempio: quando diedi a Erba il testo della Suora carmelitana, glielo diedi espurgato dei due versi relativi al fistfucking, perché ero convinto che lo avrebbero ferito. Ne ebbi conferma pochi mesi dopo, quando a Mario Luzi diedi il testo integrale, ed egli mi rispose (tornando a darmi del lei) che quel poemetto, per via di quei due versi, era écoeurant, disgustoso, aggiungendo: “Credo che questo fosse proprio l’obiettivo che lei si era prefisso. Quindi: bravo”. La lettera autografa di Luzi sta con tutto il mio epistolario al Fondo manoscritti dell’università di Pavia. Mentre quando feci leggere il testo integrale a Giovanni Giudici (col quale ci fu un intensissimo rapporto nell’ultimo decennio della sua vita cosciente), e gli chiesi consiglio sull’opportunità di espungere quei due versi, mi rispose: “Invece li devi lasciare. Se tu li togliessi verrebbe a mancare una colonna portante del senso complessivo del lavoro”.
Ma il mio mentore fu Giovanni Raboni: mi inventò come poeta e mi inventò come traduttore: io esco da una sua costola. Mi pubblica, quando sono assolutamente inedito, nel ’78: «Paragone» e poi il Quaderno collettivo di Guanda. Malgrado quell’esordio, resto un appartato. Ed è proprio ciò che Raboni fa notare nella prefazione a I tre desideri nel 1984. Nonostante i riconoscimenti, ancora non ero entrato nel meccanismo. Ma nell’81 Raboni mi aveva posto la domanda essenziale: “Perché non traduci tutti i poeti romantici inglesi?” Già mi aveva fatto tradurre Keats per Guanda. In precedenza non avevo mai pensato di applicarmi seriamente alla traduzione di poesia. I due esordi – come poeta e come traduttore di poesia – sono cronologicamente vicini e, quel che più conta, furono mossi dalla stessa volontà e per la stessa collana: la Fenice di Guanda. Credo proprio di essere stato trattato bene dal destino. Quindi non è paragonabile quello che ricevetti da Raboni, rispetto a quanto ricevetti da altri maestri. L’ultima sua lettera è del 12 marzo 2004. Raboni aveva allora settantadue anni e parla di Guerra – che poi sarebbe poi uscita nello Specchio alla fine del 2005 – come di un libro già pronto (anche questa lettera, come tutto il mio epistolario, è custodita al Centro manoscritti di Pavia). Allora Raboni dirigeva la collana di Marsilio, e tra le altre cose mi chiede: dove intendi pubblicare questo libro così compatto e forte? Non ebbi la possibilità di rispondere perché mi giunse la notizia dell’ictus che nel volgere di pochi mesi lo portò alla morte.
C’è stata anche molta vicinanza con Franco Fortini, in particolare nella seconda metà degli anni ottanta e nei primi novanta. Ricordo che lo andavo a trovare a piedi, nella sua casa vicino all’Arena, perché per quattro anni ebbi anche un contratto a Milano Iulm, ancora nella vecchia sede all’Arco della Pace. Qualche volta faceva lui la passeggiata, ascoltava la mia lezione di letteratura inglese, poi la commentava al bar ritrovando a tratti anche la sua antica energia polemica. Infine lo riaccompagnavo a casa. Fu un rapporto stupendo, molto generoso da parte sua, che credo di dovere un po’ all’ingiustizia da lui messa in atto nei confronti di Pasolini. Mi son fatto questa convinzione. Che l’affetto e l’amicizia per me così immediata e così gratuita – Fortini accettò persino di far parte del comitato scientifico della mia rivista «Testo a Fronte» – fosse una sorta di compensazione. Essendo egli stato ingiusto ai tempi con un omosessuale in quanto omosessuale, ed essendo questi scomparso tanto precocemente, non potendo quindi più egli “rimediare” (Fortini era fatto così), fu con me generosissimo, quasi a compensare le parole cattive di tre decenni prima. Anche le sue lettere sono custodite a Pavia.

 

4. Che cosa occorre per diventare un poeta?

Io consiglio sempre di leggere, leggere, leggere tantissimo, non solo poesia, ma anche la grande narrativa e la grande saggistica, per diventare persone colte. Consiglio di studiare molto bene le filologie, le etimologie, di studiare almeno due lingue classiche e due o tre lingue moderne. Consiglio molto di tradurre: la traduzione è un grandissimo esercizio, anche per diventare poeti, perché dà la misura della propria originalità, della capacità di innovare o meno. Dopo, quando si è convinti davvero che il proprio libro debba essere pubblicato, che ne valga davvero la pena, allora consiglio di cercare buon editore e/o curatore di collana.

 

5. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori? 6. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco? 7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Io ho compiuto settanta anni e sono cinquanta anni che bazzico il mondo della poesia. Da cinquanta anni sento fare questo discorso: è proprio il genere letterario in sé che è fragilissimo, ma è il più duraturo in assoluto, il più antico e il più fedele a sé stesso. Il libro di narrativa può anche vendere migliaia di copie, però poi alla lunga, nelle antologie scolastiche restano i poeti. Sono i poeti che innovano il linguaggio e sono i poeti che vanno maggiormente in profondità. Dunque direi che questa è la chiave. Quante volte accade che idee parole e stilemi inventati da poeti vengano assunti da divulgatori come possono essere i cantautori o certi narratori? Non è il numero di copie vendute che deve interessare. La vera letteratura, la grande letteratura, si trova tra i poeti. Ci sono narratori che nell’otto-novecento hanno venduto centinaia di migliaia di copie, di cui oggi non ci si ricorda nemmeno più il nome. Bisogna mettersi in quest’ottica. Anch’io faccio letture di poesia e mi sono simpatici gli slam poetry e i festival, purché si sia consapevoli che la poesia è in prima istanza un dialogo diretto e profondo tra il poeta e il lettore, e questo può avvenire solo nel silenzio e nella concentrazione. Naturalmente parlare di silenzio e di concentrazione significa parlare di cose elitarie, dove per élite intendo una élite dell’anima. Certo, io faccio di tutto per promuovere il genere letterario poesia, ma non penso di dover sfidare i cantautori o i narratori, che vanno per la loro strada e raggiungono il loro successo effimero, mentre la poesia segue un percorso diverso. Dalla seconda metà del Novecento il genere letterario poesia è diventato sempre più di nicchia: su un pubblico generalista ha sempre meno presa, con un conseguente ridimensionamento del ruolo del poeta. Perché il poeta è più appartato e oggi si tende a dare maggiore enfasi a chi si espone di più. È più facile che su certe tematiche venga intervistata una persona dal brillante eloquio, ma superficiale, piuttosto che un poeta, questo è verissimo. Oggi molta gente non conosce nemmeno il nome dei poeti più importanti. Secondo me è il destino di tutte le arti: a partire dal Novecento questo fenomeno va aumentando e vale per la musica, la pittura, la scultura. Il pubblico non conosce i poeti perché dovrebbe fare uno sforzo per comprenderli, la poesia è un fenomeno che richiede preparazione per essere compresa e la gente ne ha sempre meno. Prima della concentrazione e del silenzio, per godere della poesia occorre la preparazione, bisogna studiare per poterla capire e poi per poterla apprezzare. In questo senso la scuola potrebbe fare di più. Invece fa poco, anche perché per insegnare, occorre sapere, e i primi a non essere preparati a insegnare la poesia spesso sono proprio gli insegnanti. Io però sono convinto che la Poesia esisterà e resisterà sempre.

 

8. Gli instapoets aumentano le possibilità di avvicinare nuovi lettori agli scaffali di poesia?

Non credo.

 

9. In futuro si leggerà più o meno poesia?

Tutto mi fa supporre che la situazione resterà quella attuale. Fino agli anni Novanta esisteva un enorme setaccio che era rappresentato dalle riviste cartacee di poesia: c’erano quelle di serie A, in cui un comitato scientifico di alto livello valutava l’eventuale pubblicazione; c’erano quelle di serie B e quelle di serie C, in cui chiunque si abbonava riusciva a far pubblicare le proprie poesie. Un poeta piano piano si faceva strada, si faceva apprezzare passando al setaccio delle migliori riviste: la collazione del proprio lavoro su queste realtà, magari correlata dalla presentazione di un grande poeta, portava inevitabilmente all’attenzione del pubblico della poesia. Questo setaccio è ormai quasi completamente scomparso, insieme alle riviste cartacee. Oggi però esiste la Rete e io noto che anche nella Rete, più o meno si sta verificando lo stesso meccanismo: esistono i siti dove tutti pubblicano, senza selezione, perché è un gioco collettivo a cui può prendere parte chiunque, ed esistono i siti in cui per pubblicare bisogna passare la selezione di un comitato di lettura. Quindi anche nel virtuale della Rete si verifica più o meno lo stesso fenomeno del passato. Si vedono nomi che col passare degli anni superano vari filtri e arrivano a essere presi in considerazione. È un processo lento ma c’è. Il filtro c’è ancora, gli aspiranti poeti sono tantissimi, ma non bisogna cadere nell’errore di pensare che oggi ce ne siano di più rispetto al passato: gli aspiranti poeti ci sono sempre stati e sono sempre stati decine di migliaia. A diciotto anni è molto comune pensare di poter diventare poeti. A fare la differenza è il continuare a scrivere, è il ricevere feed-back positivi, che arrivano con il tempo, quando la produzione è davvero convincente. Per ogni generazione (dieci/quindici anni) restano non più di due o tre nomi, gli altri sono dimenticati: per questo sembra che in passato ci siano stati meno poeti, ma è solo perché si ricordano solo i migliori. Il fenomeno virtuale è un mondo nuovo che si è schiuso negli ultimi venti/trenta anni e va studiato con serietà, però sono convinto che nel suo significato profondo non sia diverso da prima, il setaccio è ancora in funzione.

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

Questa poesia non è ancora uscita in volume. La scrissi la sera del Premio Strega: avevo votato ed ero lì per festeggiare la mia amica Helena Janeczek al ninfeo di Valle Giulia. Mentre tutti si agitavano attorno al tabellone dei risultati, Andrea – il giovane che mi accompagnava – divorava portate su portate seduto tranquillo al nostro tavolo…

Da una tana di scoiattolo

In Siberia da una tana di scoiattolo
E’ resuscitato un verme
Di quarantamila anni fa.
Prelevato da un campione di permafrost
Presso il fiume Alazeya
L’animale come nulla fosse
Ha ricominciato a muoversi e a mangiare.
Mi contagia l’entusiasmo dei ricercatori
Dalla Doklady Biological Science:
La scoperta apre immense prospettive
Anche per gli esseri umani.
Mi piacerebbe tra duecento anni
Vederti uscire da una tana di scoiattolo
Per tornare al Ninfeo di Villa Giulia
Tra i reperti etruschi
Con questo cracker in mano.

 

Intervista a cura di Andrea Cati
Foto di Dino Ignani

Franco Buffoni


Giornale deca croissant

Ragionano, blandiscono, promettono
Con fare complice e bonario:
Si permettono. Il capolavoro forse è proprio
Diventare vecchi e non adulti
Aspettando mezzogiorno al caffè,
Giornale deca croissant
Defunto lo sguardo.
Di quando il vecchio preside mi disse
Non aveva mai avuto un amico
Con cui confrontarsi, sempre frenato
Dal timore che la sua autorità
Potesse produrre favoritismi.
Ma ora con la pensione
Si sentiva più sicuro,
Poteva darmi del tu.

 

La linea del cielo (Garzanti, 2018)

© Foto di Dino Ignani

Franco Buffoni

franco_buffoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La lunga nota medievale

Ma voglio quegli anni o gli anni nuovi,
Mi sorprendo a chiedermi: un
Tuffo nell’ignoto o la strategia del noto?
Da capo rivivendo quel nostro decennio
Con la testa di oggi,
O ritrovandomelo intatto a stordire?
Si ripresenta la fuga del padre
Perdutasi nel nulla verso oriente
Dopo che conventi e osterie
Bordelli e sacrestie
Mi ebbero accolto e scacciato
Nutrito e denunciato.
Poi apparisti tu, Jucci, e io…
Fammi almeno risentire
La tua lunga nota medievale,
Con quella in mente
Voglio trasmigrare.

 

Jucci (Mondadori, 2014)

Foto di Dino Ignani