Christian Sinicco

Ph. Dino Ignani

Fine della processione

entriamo in un piccolo cimitero e penso in una lingua non mia
parole che sembrano dure come i discorsi del prete:
recitano una parte che si ripete nella totale amnesia

poi si arriva ai Signore pietà, Cristo pietà, chiusi da questa parete
di uomini e donne scesi dalla sommità del paese e dalla chiesa
e sogno una grande processione che chiami l’Europa, quando suona

una campanella, il prete tira la sua corda tesa
più e più volte, e seguita con una preghiera, questa volta atona –
intanto la marea che entra nel Mediterraneo si insanguina

come un’aorta spinge il sangue di Cristo tra tutte le capitali
e per un attimo credo che l’orazione duri tutta la mattina
– fissando le lapidi di pietra e i fiori avvolti dai giornali

ci dividiamo come un unico corpo tra le tombe, e io non so più pregare:
per alcuni è un cammino di conoscenza, per altri solo di speranza
e il cimitero è così affollato che non si trova un angolo per amare

Ballate di Lagosta (Donzelli, 2022)

Ana Blandiana

ana_blandiana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per scelta mia

Ho cominciato con poco, senza una vera colpa,
un gesto mancato, un sorriso trattenuto,
e quale ecatombe di cari morti ora –
per scelta mia, per scelta mia, per scelta mia,
interdetto, punito, soppresso.
Da tempo è scomparsa ogni solidarietà fra me
e gli alberi
e il cenno della fonte che mi avvertiva
quando era avvelenata.
Me ne starò ferma, quando gli uccelli imparano a volare
per paura se mi avvicinano
che io li uccida?
Quando le serpi si nascondono in terra,
i vermi nelle mele,
e l’erba più non osa nei dintorni
accogliere le foglie che cadono?
Quando, atterrito, l’universo contempla in me
un senno che non mi aveva dato?

 

Un tempo gli alberi avevano occhi (Donzelli, 2004), trad. it. B. Frabotta, B. Mazzoni

Odisseas Elitis

Odisseas Elitis

Piango il sole e piango gli anni che verranno
Senza di noi e canto gli altri passati
Se veramente sono

Confidenti i corpi e le barche che sbattono dolcemente
Le chitarre che accendono e spengono sotto le acque
I “credimi” e i “non”
Ora nel vento ora nella musica

E le nostre mani, due piccole bestie
Che furtive cercavano di salire l’una sull’altra
Il vaso di brezza negli aperti cortili
E i frammenti di mare che ci seguivano
Fin dietro le siepi e sopra i muri a secco
L’anemone che si depose nella tua mano
E tremò tre volte il viola tre giorni sopra le cascate

Se tutto questo è vero io canto
La trave di legno e l’arazzo quadrato
Alla parete, la Gorgone con i capelli sciolti
Il gatto che ci guardò nel buio
Bambino con la croce vermiglia e l’incenso
Nell’ora che sull’impervia scogliera scende la sera
Piango la veste che sfiorai e fu mio il mondo.

 

È presto ancora (Donzelli, 2011), a cura di P. M. Minucci

Natan Zach

Sfavorevole agli addii

Il mio sarto è sfavorevole agli addii.
Per questo, ha detto, non partirà mai più, non vuole
separarsi dall’unica sua figlia. Assolutamente è
sfavorevole agli addii.

Una volta ha detto addio a sua moglie
e non l’ha più rivista (Auschwitz). Disse addio
alle sue tre sorelle e anche loro
non le rivide mai più (Buchenwald). Una volta
disse addio a sua madre (il padre è morto
in età veneranda). Adesso è
sfavorevole agli addii.

A Berlino era in buoni
rapporti d’amicizia con mio padre. Bei giorni consumati
nella Berlino di allora. Quei maledetti
tempi sono passati. D’ora in poi
non partirà mai più. Perché lui
assolutamente è
(mio padre intanto è morto)
sfavorevole agli addii.

 

Sfavorevole agli addii (Donzelli, 1996)

Philippe Jaccottet


Nutrito d’ombra, parlo
e ruminando magre pasture di tenebre
povero, debole, addossato alle rovine della pioggia,
mi stringo a ciò di cui non posso dubitare,
il dubbio, e abitando l’inabitabile guardo
riprendo a biascicare contro la morte
sotto sua dettatura. Crollando io persevero
a vedere, io vedo il crollo che scintilla,
e tutta la distanza della terra,
tutta la profondità degli anni fiocamente
illuminati, una dolcezza insostenibile,
un’ala sotto la coltre bruna delle nubi.
L’ombra mi schiude gli occhi
e l’avvicinarsi dell’impossibile al fondo della luce,
l’invasione della cenere al fondo di me stesso, cenere vittoriosa,
insolente, feroce, non mi fanno tacere,
ma mi dettano come ultima risorsa nuovi discorsi
e io brancolo fra parole antiche,
fra rovine di antichi versi,
ah! senza che nulla mi sostenga né mi guidi
tranne la potenza dell’errore,
tranne un’ombra taciturna e senza lume.

 

Poeti della malinconia (Donzelli, 2001), a cura di B. Frabotta

Kostandinos P. Kavafis


Non ti ebbi e non ti avrò
forse mai. Qualche parola, uno sfiorarsi
come al bar l’altro ieri, niente di più.
È una pena, lo confesso. Ma noi dell’Arte
talvolta con la forza del pensiero, e certo solo
per un tempo breve, creiamo piaceri
che sembrano quasi fatti di materia.
Così al bar l’altro ieri – con l’aiuto
di una benevola ebbrezza –
ho avuto mezz’ora di assoluto erotismo.
E lo capisti mi parve,
e rimanesti apposta un po’ di più.
Era necessario. La fantasia
e la magia dell’alcol non bastavano;
avevo anche bisogno di vedere le tue labbra,
avevo bisogno di sentire il tuo corpo vicino.

Tutte le poesie (Donzelli, 2019), a cura di P. M. Minucci

Antonella Anedda


Mi spingo oltre il dolore
dove nessuno sospetta che si soffra
in una zona di pelle mai colpita
cupa come l’avambraccio
o molata dall’osso come il gomito.
Striscio piano con l’anima coperta da scaglie rosso-grigie
per sostenere i rovi e lasciare a terra
il sangue minimo. Un passo – sono paziente –
e il corpo ha imparato a frusciare dentro l’erba.

Da molto lontano – da un’alba di ottobre
da un oggetto mosso nella sabbia del lago
viene ciò che la pena contempla: un paesaggio
dove non si può dormire.
Era una lunga immagine
il mormorio di un brivido.
Troppo tardi si compone l’astuzia di ogni sera
fingere che il mio braccio sia il tuo
che stringa la mia mano
di nuovo, senza pace.

 

Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999)

Foto di Dino Ignani

Philip Schultz


It’s Sunday Morning in Early November

and there are a lot of leaves already.
I could rake and get a head start.
The boys’ summer toys need to be put
in the basement. I could clean it out
or fix the broken storm window.
When Eli gets home from Sunday school,
I could take him fishing. I don’t fish
but I could learn to. I could show him
how much fun it is. We don’t do as much
as we used to do. And my wife, there’s
so much I haven’t told her lately,
about how quickly my soul is aging,
how it feels like a basement I keep filling
with everything I’m tired of surviving.
I could take a walk with my wife and try
to explain the ghosts I can’t stop speaking to.
Or I could read all those books piling up
about the beginning of the end of understanding…
Meanwhile, it’s such a beautiful morning,
the changing colors, the hypnotic light.
I could sit by the window watching the leaves,
which seem to know exactly how to fall
from one moment to the next. Or I could lose
everything and have to begin over again.

 

*

 

È domenica mattina ai primi di novembre

e ci sono già molte foglie.
Potrei spazzarle via e andare avanti col lavoro.
I giochi estivi dei ragazzi vanno messi
in cantina. Potrei sgomberarla
o riparare la controfinestra rotta.
Quando Eli torna dalla scuola domenicale
potrei portarlo a pescare. Non lo so fare
ma potrei imparare. Potrei fargli vedere
quanto è divertente. Non facciamo più tante cose
come prima. E mia moglie, c’è così tanto
che non le ho detto di recente,
di quanto veloce invecchia la mia anima,
una cantina che continuo a riempire
di tutto quello che sono stanco di portarmi dietro.
Potrei fare due passi con lei e cercare
di spiegare i fantasmi con cui parlo senza sosta.
O mettermi a leggere tutti quei libri accatastati
sull’inizio della fine della ragione…
Intanto, è così bello stamattina,
i colori che cambiano, la luce ipnotica.
Potrei sedermi accanto alla finestra a guardare le foglie,
che sembrano sapere esattamente come cadere
da un momento all’altro. O potrei lasciar perdere
tutto e ricominciare da capo.

 

Il dio della solitudine (Donzelli, 2018), a cura di Paola Splendore

Anthony Hecht


See Naples and Die

It is better to say, “I’m suffering,” than to say,
“This landscape is ugly.”
Simone Weil

I can at least consider those events
Almost without emotion, a circumstance
That for many years I’d scarcely believed.
Our strong emotions, of pleasure and pain,
Fade into stark insensibility.
For which, pheraps, it need be said, thank God.
So I can read from my journal of time
As if it were written by a total stranger.
Here is a sunny day in April, the air
Cool as spring water to breathe, but the sun warm.
We are seated under a trellised roof of wines,
Light-laced and freaked with grape-leaf silhouettes
That romp and buck across the tablecloth,
Flicker and slide on the white porcelain.
The air is scented with fresh rosemary,
Boxwood and lemon and a light perfume
From fields of wild-flowers far beyond our sight.
The cheap knives blind us. In the poet’s words,
It is almost time for lunch. And the padrone
Invites us into blackness the more pronounced
For the brilli ance of outdoors. Slowly our eyes
Make out his pyramids of delicacies –
The Celtic coils and curves of primrose shrimp,
A speckled gleam of opalescent squid,
The mussel’s pearl-blue niches, as unearthly
As Brazilian butterflies, and the greyturbot,
Like a Picasso lady with both eyes
On one side of her face. We are invited
To choose our fare from this august display
Which serves as menu, and we return once more
To the sunshine, to the fritillary light
And shadow of our table where carafes
Of citrine wine glow with unstable gems,
Prison the sun like genii in their holds,
Enshrine their luminous spirits.
There, before us,
The greatest amphitheater in the world:
Naples and its Bay. We have begun
Our holiday, Martha and I, in rustic splendor.
I look at her with love (was it with love?)
As a breeze takes casual liberties with her hair,
And set it down that evening in the hotel
(Where I make my journal entries after dinner)
That everything we saw this afternoon
After our splendid lunch with its noble view –
The jets of water, Diana in porphyry,
Callipygian, broad-bottomed Venus,
Whole groves of lemons, the pace grenadine pearls
Of pomegranate seeds, olive trees, urns,
All fired and flood-lit by this southern sun –
Bespoke an unassailable happiness.
And so it was. Or so I thought it was.
I believe that on that height I was truly happy,
Though I know less and lessa s time goes on
About what happiness is, unless it’s what
Folk-wisdom celebrates as ignorance.
Dante says that the worst of all torments
I sto remember happiness once it’s passed.
I am too numb to know whether he’s right.

[…]

 

*

 

 

Vedi Napoli e poi muori

Meglio dire «Soffro», piuttosto che
«Il paesaggio è brutto».
Simone Weil

Posso alfine esaminare quegli eventi
quasi senza emozione, circostanza
cui per anni e anni poco avevo creduto.
Dimentichiamo molto, certo, e, con i fatti,
le emozioni forti, di pena e di piacere,
si stemperano in duro non sentire.
Del quale forse, andrebbe detto, sia ringraziato Iddio.
Così percorro passi dal diario di quel tempo
Come fosse scritto da un estraneo.
È un giorno di sole qui, è aprile, l’aria
Fresca acqua sorgiva al respiro, ma il sole è caldo.
Sediamo sotto una pergola di vite,
ricamati di luce e screziati dalle ombre delle foglie
che scattano e recalcitrano sulla tovaglia,
guizzano e scivolano sulla porcellana bianca.
L’aria sa di rosmarino fresco,
bosso e limone e di una leggere fragranza
di fiori selvatici da campi nascosti alla vista.
I coltelli da due lire ci accecano. Per dirla col poeta,
è quasi ora di pranzo. E il padrone
ci invita in un’oscurità tanto più fitta
per la brillantezza dell’esterno. Adagio gli occhi
mettono a fuoco piramidi di prelibatezze –
le spire celtiche, le sinuosità dei gamberetti,
il lucore maculato della seppia opalescente,
le nicchie azzurro-perla delle cozze, ultraterrene
come farfalle amazzoniche, e il rombo grigio,
signora picassiana, entrambi gli occhi
sullo stesso lato del volto. Ci invitano
a scegliere il cibo da questa mostra angusta
che funge da menù, quindi torniamo
al sole, alla fritillaria luce
e ombra del tavolo dove caraffe
di vino citrino rifulgono di gemme instabili,
imprigionano il sole come un genio in loro potere,
incastonano i loro spiriti luminosi.
Lì, davanti a noi,
il più sontuoso anfiteatro del mondo:
Napoli e il suo Golfo. Abbiamo iniziato
la vacanza, Marta e io, in schietto splendore.
La guardo con amore (era amore?)
e una brezza si prende libertà coi suoi capelli,
e quella sera metto per iscritto in albergo
(dove dopo cena aggiorno il diario)
che ogni cosa vista nel pomeriggio
dopo lo splendido pranzo con quella veduta superba –
i getti d’acqua, Diana di porfido,
la callipigia Venere dall’ampio fondoschiena,
giardini di limoni, le stipate perle granato
della melograna, gli ulivi, le urne,
tutto infocato, in un diluvio di luce, dal sole del Sud –
rivelavano un’irrefutabile felicità.
E così era. O così pensavo fosse.
Credo che su quell’altezza io fossi davvero felice.
Anche se con il passare del tempo ne so sempre meno
di cosa sia la felicità, a meno che non sia
ciò che la saggezza popolare celebra come ignoranza.
Dante afferma che il peggiore dei tormenti
è ricordare la felicità una volta che è passata.
Sono troppo inebetito per sapere se ha ragione.

[…]

 

Le ore dure (Donzelli, 2018), a cura di Moira Egan e Damiano Abeni