Chiara De Luca

chiara de luca

 

Elegante si china come un giunco,
nebbia la sfiora di una veste da sposa,

i capelli le si schiudono a raggiera,
sparsi vibrano del brivido dell’onda

si giungono e ancora la corrente li separa:

si specchia capovolta finché non la spaventa
un colpo di vento che di colpo la disperde

sulla superficie come una malerba.

Ë una donna il salice che piange
la fine di tutte le storie, stanca del giorno

ebbra d’autunno implora la notte
di baciarle via la luce dal volto.

 

© Inedito di Chiara De Luca da La nudità della luce

Chiara De Luca

chiara de luca

 

Credevo di trovarli tutti ad aspettarmi
schierati sul binario alla stazione

coi volti contratti dalle notti
bruciate a fiutarmi per le strade di Bologna

oppure accovacciati sul muretto dove ho atteso
dieci anni ogni volta di andarmene per poco

dalle prove generali del per sempre

credevo di cadere in quelle orbite vuote
leggendo il labiale delle bocche deformate

di stringere le mani nelle tasche per sottrarle
alla stretta delle mani degli spettri verso il vuoto

ma i versi hanno drenato il sangue dei ricordi
il tempo bendato lo sfregio dei ritorni

e non piove che sole sull’alveare
della piazza all’uscita dalla stazione.

 

Bologna, 28 marzo 2015

© Inedito di Chiara De Luca

Chiara De Luca

chiara de luca

 

Via delle Volte

La luce è una palpebra che scivola sul buio
degli sguardi tramontati di finestre cieche

in via delle Volte che me ne sono andata
da scuola per correre l’alba sulla mura;

di volte di luce sola sulle porte serrate
sui volti aperti in cui sono sprofondata

riemersa in sagome che sgusciano all’abbraccio
di strade confluite all’incrocio nella notte

mentre grava il sipario della nebbia ancora fitta;
via di tutte le volte in cui mi sono addentrata

per vedere tra le pieghe riemergere figure
scostare il velo e addensarsi sul proscenio

in cerca di uno sguardo che le sappia pronunciare.

 

© Inedito di Chiara De Luca

Chiara De Luca

chiara de luca

 

a mio fratello

 

Al tuo braccio appesa come a un albero maestro
nel viavai di arrivi e partenze a Tiburtina
dopo il primo appello della morte all’improvviso
a spingerci sul treno per Roma da bambini

dove mamma per mano aveva accompagnato
la sua mamma all’ultima stazione del dolore
che chiuse per sempre il regno in Via Napoleone
cancellando Roma dai posti per restare.

Di due naufraghi approdati al mattino sul binario
per cercare nella folla la giusta direzione,
tu eri il capitano con gli occhi presi al largo
senza timore perché i grandi non ne hanno.

Non so se giungemmo volando a quella chiesa
o contando uno a uno i sampietrini come quando
la domenica mattina raggiungevo il catechismo
centrando con un piede dopo l’altro i sassi pari,

ma che era così grande da fermarci sulla soglia
e che ho colto tra le dita una lacrima di cera
mentre sull’altare un uomo calmo ci parlava

di Teresina come di una che non c’era

e che più non mi avrebbe baciata sulla fronte
la sera nel lettone la vigilia di Natale,
che più non mi avrebbe accolta sulla soglia
sorridendo in fondo ai quarantadue gradini
da fare al galoppo senza mai perdere il conto.

A chi diceva La tua nonna è andata
in cielo, gridavo Il cielo è in terra
e in tutta questa pioggia
di pianto manca nonna,
finché mi sciolsi in acqua
per cadermi lungo il viso.

Ora che ho cercato altrove per vent’anni
ritorno alla partenza per non ritrovarti,
i ricordi come stecche di mikado li ha soffiati
un alito d’orgoglio la tenacia di un tornado
e già sono due anni che ci ha sparpagliato.

Oggi lungo il muro ritraccio lentamente
le gobbe in via Cammello verso via Camaleonte,
sasso dopo passo dopo sasso da contare
senza perdere di vista la luce alla finestra,
per sapere se stasera tra le labbra della nebbia
è la breccia di un mondo o solo il margine di un giorno.

Ma di nuovo perdo il conto
e resto appesa al vento
in questo resto di cielo deserto.

 

© Inedito di Chiara De Luca

Chiara De Luca

chiara de luca

 

Irma

Irma era la terza nonna honoris causa
nessuno lo sapeva ma lei era regina
della strada che abitavo da bambina;

con la vita fina e i fianchi danzanti
le gambe di giunchi e i gigli dei denti
e camelie di capelli cotonati con cura
attorno al capo come una corona,

Irma non perdeva un solo colpo
a bordo dalla bianca Cinquecento
quando coi tacchi alti e il parasole
partiva dritta e fiera verso il mare;

Irma che fingeva d’infornare
la mitica ciambella “superiore”
che dal pasticcere invece comprava
per noi bambini nel fine settimana;

Irma che diceva di parlare con i fiori
di non lasciarli mai nel silenzio da soli,
lei che riesumava ciclamini e vi spuntava
nel mezzo sorridente al davanzale
sporgendosi per invitarci a salire;

Irma che senza una ragione
un giorno mi ha donato il sole
giallo del mio piccolo tenore

Cippi il canarino che sapeva
scrosciare con la voce come un fiume
perdersi in onde e vortici nel mare

del suo assolo che sembrava risalire
infinito per sfumare quando il sole
tramontava con il capo sotto l’ala;

Irma che mi ha lasciata sola
quando ero già tanto lontana
da questa mia città così sorda,
o burlona.

 

© Inedito di Chiara De Luca

Chiara De Luca

chiara de luca

 

Erano tanti ed erano nel vento

stretti l’uno all’altro e frusciavano voci
brulicavano nel legno fresco gli insetti,

le cavità del tronco inghiottivano voraci
creature, minuscoli punti senza sole;

si aprivano ali dai rami più alti
dilatando il bianco delle assenze
in trasparenze di nuvole disperse,

spiccando sfrecciavano fino a svanire;

s’impigliava nel folto la luce e spioveva
mulinando liberata fino alle radici
nel punto in cui svanivano scavando
tunnel per tuffarsi nel terreno,

fino all’istante in cui secca la linfa
e inverna fino al cielo la corteccia,

fino all’istante in cui tutto ghiaccia
tumula i rami nel cielo della notte;

un silenzio di senso precipita le vette
come immobili si lasciano le foglie

dalla nudità esposta alle stagioni
cede il vento e abbandona la luce
al volo inverso che sposa alle radici

 

© Inedito di Chiara De Luca

Tamara Kamenszain

Tamara Kamenszain

 

Dall’altro lato della camera da letto familiare
mi fisso come una roccia allo spazio inospitale dello sgombero
lì, oltre i ritratti dei nonni
indicando questo cuscino che nessuno usa più
attaccato alle valigie che aspettano in piedi
lì è dove cresce il fantasma del rifugio
che aspetta paziente mia madre per farsi reale.
In punta di piedi entriamo a spiarlo
dietro un odore c’è un altro odore c’è un altro odore c’è un altro odore
eppure ancora più indietro da un gemito un rumore avanza
sono sedie a rotelle che camminano da sole
i nudi e i morti mettono il freno delle loro sonde
a disposizione delle infermiere
qualcuno tende il letto con godimento di becchino
in sala di chinesiologia immobilizzano gli invalidi in pantofole
non trovo l’uscita nonostante le frecce la indichino a ogni passo che non faccio
non la lasciamo non la lasciamo qui diciamo in coro con mia sorella
che ci curi lei, che ci protegga da quello che le tocca
consolaci mamma del tuo stesso soffrire
perché il logorio della tua vita ci mette in fuga
e come pazze sul bordo dell’uscita
anche se la freccia che la indica ti ha già trafitto il corpo
e adesso c’è soltanto un’entrata ad aspettarci
retromarcia per il tunnel del tuo deterioramento
quello che dal primo parto programmato
fino al punto morto dell’ultimo cesareo
va espellendoti sola sciolta dalle tue stesse figlie
fuori più fuori moltissimo più fuori ancora
dalla nostra prima dimora.

 

da L’eco di mia madre (Kolibris, 2014), trad. it. Chiara De Luca.