Beatrice Zerbini


Ogni giorno, perdo tutto
e tu con me
e te;
e si sfuocano
le colazioni,
si induriscono
i biscotti al burro;
perdo il quadro
che ride e vive,
la cornice delle tende,
le verità stupende
che non ho detto e
la stupidità
di avere paura.
Perdo tutto, ogni giorno;
la pelle nuova,
la ruga che ho sorriso,
la ruga che ho pianto,
la voce,
la mia e la tua,
il coro che sono,
l’assolo.

Perdo parole
che avremmo potuto dirci,
non dirci,
dire meglio.

Perdo possibilità
e una possibilità,
il ritmo del respiro,
la pazienza,
le sementi di un’idea.

E perdo le facce degli altri
in strada,
la mia su una vetrina buia.

Ogni giorno perdo
uno scorcio
carico di sole,
e la mia età
salda,
che mi ancora alla terra
come un macigno
o una nascita,
che mi seduce
e trascina,
che tracima;
perdo la speranza che
esonda sulla mia fretta,
sulla mia calma.

Perdo
il miracolo di un giorno,
l’elemosina del tempo,
lo scialacquio degli attimi,
con la risacca magra
di qualche
felicità.

Ogni giorno perdo tutto:
il significato,
la velleità del buio
e gli abbagli,
la vastità sul bivio
e l’ombra lunga
degli sbagli,
le rime,
le rime per te,
l’amore,
la bambina che crede,
la bambina in cui credi,
e un’ansia del petto
che può fremere
e domandare
e guardare
e regnare ogni giorno,
mentre perde.
E perde tutto.

Perdo giurisdizione
ed emozione;
si consuma,
si annebbia,
sbraita come un fumo
la mia vita,
che ogni giorno perde me,
mentre perdo tutto.

Perdo il timpano dolce
sotto le voci affettive
che sono un’ala,
a curarmi,
o macerie.

Ogni giorno,
poi,
mi sveglio –
se mi sveglio –
e tutto,
tranne te
e tu con me,
ritrovo.

 

In comode rate (Interno Poesia Editore, 2019)

Foto di Enrico Maria Bertani

Intervista al libraio: Giorgio Santangelo

Giorgio Santangelo: (Foggia, 1990), studi letterari alle spalle ed esperienze in alcune librerie italiane all’estero, è uno dei due soci fondatori della libreria – cafè – winebar “La confraternita dell’uva”, aperta a Bologna nel dicembre 2016, in omaggio a John Fante. Ama molto viaggiare, il cinema e la letteratura americana.

 

1. Cosa vuol dire per te svolgere il mestiere di libraio?

Significa fare della mia passione più grande il mio lavoro.

 

2. Che cosa ti rende felice del tuo mestiere e cosa no?

Cosa mi rende molto felice: poter far leggere a qualcuno un libro che mi ha in primis sconvolto o emozionato particolarmente. Far provare a qualcuno quel che ho già provato io, è quella la molla che mi spinge.
Cosa no: non mi piace la mancanza di meritocrazia che spesso circola nell’industria del libro: non vengono premiati i libri più belli o che meritano di circolare di più, ma quelli che devono circolare per motivi puramente utilitaristici e di commercio.

 

3. Passiamo ora alla poesia. Intanto: sei un lettore di poesia?

Leggo poesia ma è un mondo che non sento di conoscere appieno. Cerco di rimediare leggendone sempre un po’ ogni giorno.

 

4. Quanti titoli di poesia ospita tra gli scaffali la tua libreria?

Non troppi e un po’ me ne pento. La nostra sezione dedicata di testi di poesia è però in continua espansione.

 

5. Ospitate presentazioni dedicate alla poesia?

Sì, specialmente di autori contemporanei. Per me è come andare a scuola, ho modo di conoscere sempre meglio la scena odierna e di rinfoltire il reparto di libri di poesia con tanti italiani interessanti.

 

6. E come vanno le presentazioni, le vendite, in generale quanto seguito ha la poesia nella tua libreria?

La poesia è un mondo strano, attrae gente che ruota solo intorno alla poesia. Ci sono presentazioni molto partecipate ma quel pubblico lo si vede solo durante gli incontri di poesia, mai negli altri. Inoltre di solito le vendite di poesia sono minori rispetto a quelle di narrativa.

 

7. Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?

Non so se la poesia si legga di meno ma noto che molti giovani poeti italiani puntano molto su tecnicismi e virtuosismi linguistici che rendono la materia ostica a chi non ne mastica molta. Penso all’America dove invece ci sono tantissimi poeti che riescono a mantenere platee intere con il fiato sospeso grazie anche alla loro capacità interpretativa.

 

8. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?

Secondo me ci sarebbe bisogno di sdoganare il mondo della poesia, ai miei occhi molto spesso chiuso su se stesso e un po’ autoreferenziale. Far capire che la poesia non è qualcosa di noioso relegato a circoli di soli appassionati ma può essere un fuoco sconvolgente. C’è bisogno di apertura per un ricambio continuo.

 

9. Gli Instapoets avvicinano nuovi lettori agli scaffali di poesia?

Non penso. Mi sembrano un prodotto fine a sé stesso che, può attrarre qualche occasionale che, oltre a questa lettura, non leggerà molto altro durante il resto dell’anno. É lo stesso ragionamento dell’ebook: se i non lettori non leggono, non lo inizieranno a fare solo perché gli si dà una nuova tecnologia per farlo.

 

10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?

Eccoli qui, i primi versi di una poesia – forse la più famosa – di un poeta italiano non troppo conosciuto. Sono tratti dal libro Un solitario amore, edito da Fandango. Me l’ha fatto scoprire apprezzare un amico scrittore.

Beppe Salvia, Cuore

A scrivere ho imparato dagli amici,
ma senza di loro. Tu m’hai insegnato
a amare, ma senza di te. La vita
con il suo dolore m’insegna a vivere,
ma quasi senza vita, e a lavorare,
ma sempre senza lavoro. Allora,
allora io ho imparato a piangere,
ma senza lacrime, a sognare, ma
non vedo in sogno che figure inumane.
Non ha più limite la mia pazienza.
Non ho pazienza più per niente, niente
più rimane della nostra fortuna.
Anche a odiare ho dovuto imparare
e dagli amici e da te e dalla vita intera.

 

Intervista a cura di Andrea Cati
Foto di Stanislav Magay

Francesca Serragnoli

serragnoli

Ieri notte a Bologna
la pioggia fine di ottobre
ha continuato a cadere
in ginocchio rifaccio
il gesto del cielo
quando scende rosa
sulle tue spalle, l’ombra
è un calice bevuto lentamente
rimane il fondo, un bisbiglio
un rubino che sfugge all’oblio

quanto cielo fra noi
due milioni, forse cento
la distanza che patiscono le stelle
è un sorriso spaccato in due
orizzonti lacerati dallo spazio
il cielo è niente, arrossisce
come prima di un bacio.

a E.

 

© Inedito di Francesca Serragnoli

Anna Toscano

toscano

Amo Bologna

Amo Bologna
vicoli stretti
melograni prosciutti
tortellini spazzole da scarpe.
Ci vedo camminare
Raimondi, Eco, Dalla, Bernardi,
li scorgo che prendono
il giornale, il caffè
ricordando come era allora
«mica era così, ma no».
Amo Bologna,
ci avevo una nonna
ci avevo una zia
a cui crollarono i vetri nell’attentato
e imprecava
i cani randagi della sorella.
Amo Bologna
e l’energia centrifuga
che esce dal Compianto
di cose belle,
come allora.

 

Una telefonata di mattina (La Vita Felice, 2016)

© Foto di Dino Ignani

Roberto Roversi

150912 - Roberto Roversi poeta nel 1998 (Pendragon) Foto Nucci_Benvenuti poesia Palmaverde

XXIV

È l’anno ’68? l’anno ’77? l’anno 2006?
A Bologna
(Italia numero ventiquattro sconquassata da mille mani e colori)
l’estate scoppia sempre con lunghi singhiozzi
con ululi di sirena sperduta nel mare in notti profonde.
Contro la porta di una chiesa giovani appena
nati stanno distesi. E aspettano.
Il cielo soffia sulla loro pelle che stride
perché non riescono a dimenticarsi di vivere.
C’è ancora un vecchio che ascolta esplodere la canzone delle pietre.
Un’ondata travolge la piazza.
Le torri sono tronchi di un legno molto duro.
I giovani hanno capelli di ferro e gli occhi di creta.
Si muove il vecchio con uno sputo che è un mare.
Tutti lasciano i buchi dove si va per confondersi
per visitare un amico o per piangere in solitudine.
Galoppa per la pianura il dolore incontro a un altro dolore.
È vero che all’alba
la vita è un’oliva verde appassita strizzata
e molti sembrano sulla riva in procella di
un fiume distesi.
Il giorno si mette a gridare a chiamare chiamare
le formiche pazienti
che alzano un muro con le seguenti parole:
Noi non dimentichiamo mai i morti.
Noi siamo uomini e anche noi piangiamo.
Ci guardiamo le mani che stretti i fucili
ma non odiamo.
Sulla piazza di giovani barbe sbatte il respiro
da primo giorno del mondo.
È lì che ciascuno ha vicino una mano. Una mano.
E non si lascia incantare.

 

Trenta miserie d’Italia (Sigismundus, 2011)

Andrea Cati

empty-table

 

Decollano aerei sopra il chiasso delle nostre ultime parole.
Non c’è altro da dire ti dico mentre ordiniamo vino rosso e brasato.
La tua mano cerca la mia, poi si ritira, affonda tra le lacrime che baciano il tuo volto.
Siamo qui seduti, impressi in una foto che ci ritrae goffi, incapaci di dirci addio.
Vorrei raccontarti cosa ne è stato di me da quando ho capito che tutto volgeva verso la nostra fine.
Invece, ti ascolto, bevo in silenzio e taglio questa carne con la stessa forza con cui non ti ho trattenuta a me.
In qualche ristorante di Bologna, Pescara, Milano, siamo ancora seduti agli stessi tavoli a ridere e a litigare.
A toccarci sotto le tovaglie, tra gli abissi del nostro amore.

 

© Inedito di Andrea Cati

Chiara De Luca

chiara de luca

 

Credevo di trovarli tutti ad aspettarmi
schierati sul binario alla stazione

coi volti contratti dalle notti
bruciate a fiutarmi per le strade di Bologna

oppure accovacciati sul muretto dove ho atteso
dieci anni ogni volta di andarmene per poco

dalle prove generali del per sempre

credevo di cadere in quelle orbite vuote
leggendo il labiale delle bocche deformate

di stringere le mani nelle tasche per sottrarle
alla stretta delle mani degli spettri verso il vuoto

ma i versi hanno drenato il sangue dei ricordi
il tempo bendato lo sfregio dei ritorni

e non piove che sole sull’alveare
della piazza all’uscita dalla stazione.

 

Bologna, 28 marzo 2015

© Inedito di Chiara De Luca

Francesca Serragnoli

Francesca_Serragnoli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?

Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.

Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.

Non mi lasciare nel traffico
nel buio sordo di un attimo
quando non ti volti più
e caschi fra i rami
come un tramonto colpito
nel petto da uno sparo
non lasciarmi andare sotto i portici
che non hanno braccia
non farmi credere che la piazza
sia più bella dei tuoi occhi
che i gradini siano le tue ginocchia.

 

da Il rubino del martedì (Raffaelli, 2010)

Foto di Daniele Ferroni