Giuliano Ladolfi (1949) ha pubblicato quattro raccolte di poesia. Ha fondato la rivista di poesia, critica e letteratura «Atelier» (1996). Si è occupato in modo particolare di poesia del Novecento con circa 70 monografie. Ha curato L’opera comune, antologia di 17 poeti nati negli Anni Settanta (1999). Per Interlinea ha pubblicato 15 studi, tra cui Per un’interpretazione del Decadentismo, Guido Gozzano Postmoderno e il saggio di estetica Per un nuovo umanesimo letterario. Nel 2010 ha fondato la casa editrice che porta il suo nome e nel 2015 ha pubblicato il saggio La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà (5 tomi).
Per AltitaliaTV ha curato per dieci anni diverse rubriche televisive. Collabora con la pagina della cultura del quotidiano Avvenire.
1. Cosa vuol dire per te svolgere il mestiere di editore?
Per me il mestiere di editore significa trovare un altro mezzo per diffondere la visione della letteratura propugnata dalla rivista «Atelier». Mi spiego. «Atelier» è stata ideata nel 1996 con obiettivi precisi: a) per proporre una poesia “a misura d’uomo” combattendo il vuoto sperimentalismo, il tardo romanticismo, il postermetismo, l’avanguardismo di maniera; b) per proporre una critica in grado di offrire giudizi motivati, collocando lo strutturalismo, il formalismo entro ambiti certi, per combattere l’omertà della critica che, invece di valutare, spesso si limitava a presentare l’autore (pubblicità); c) per valorizzare autori lasciati ai margini del circuito riviste-università-case editrici, soprattutto giovani ed esordienti, spezzando una spirale devastante tutt’oggi presente; d) per porre attenzione ai testi e non al nome dell’autore; e) per introdurre chiarezza a livello di pubblicazioni e di critica.
Oltre al lavoro di rivista, abbiamo promosso convegni, incontri e pubblicazioni di collane di poesia, di traduzione e di critica letteraria. Ci siamo però accorti della difficoltà di veicolare i contenuti della nostra riflessione critica e le nostre proposte poetiche mediante un’Associazione Culturale. Quindi, nel 2010 è stata fondata la casa editrice che porta il mio nome.
2. Che cosa ti rende felice del tuo mestiere e cosa no?
Mi rende felice soprattutto il contatto e l’amicizia con molte persone. Ogni testo inviato in lettura per me rappresenta la confidenza di chi mi affida una parte sacra della sua intimità. E quando, come spesso accade, sono costretto a rifiutare il lavoro, cerco di non urtare la sensibilità di chi mi ha fatto questo prezioso dono. Coloro poi con i quali si giunge alla pubblicazione, diventano collaboratori del sogno di diffondere una letteratura di qualità “a misura d’uomo”, una letteratura che parli della nostra condizione, che affronti, in maniera diversa, i quesiti esistenziali e che sappia “rivelare” il vero volto della nostra epoca.
Mi riesce difficile sopportare la saccenteria e l’arroganza di chi non accetta i propri limiti. Nessuno, e io per primo, può pretendere l’infallibilità, ma ogni valutazione dovrebbe diventare motivo di ripensamento: può essere accettata o rifiutata con precise argomentazioni. Mi riesce pure difficile accettare l’improvvisazione e la superficialità, le quali troppo spesso si uniscono alla situazione precedente, producendo una miscela esplosiva, di fronte alla quale preferisco il silenzio, dopo aver educatamente espresso il mio parere.
3. Passiamo ora alla poesia. Intanto: cos’è per te la poesia?
Per rispondere a questa domanda avrei bisogno di molte vite come di un solo istante… Racchiudere in una formula un concetto così grande mi riesce difficile, ma ci proverò, anche perché è un problema con il quale mi scontro quotidianamente allargando la prospettiva all’intero dominio dell’arte.
Oggi non è più il tempo di creare arte solo con il fine di rappresentare la bellezza e di procurare un piacere estetico, oggi ci si deve proporre il fine di produrre un tipo di conoscenza “olocrematica” (÷loj «che forma un tutto intero» e cr≈ma «cosa che si usa, utensile»), onnistrumentale (non “onnicomprensiva” ossia che deve comprendere tutto) nel senso che adopera la totalità degli strumenti gnoseologici umani. Di conseguenza, è la conoscenza (la scoperta di una nuova apertura sul reale) che produce il piacere estetico, non il piacere estetico che produce la conoscenza. Nulla vieta di considerare l’armonia artistica come strumento di intelligibilità del complesso, del molteplice e del caotico, sempre restando nell’ambito di un’impostazione gnoseologica. Ho parlato di arte “olocrematica” perché nei suoi risultati più convincenti è presente il segno dell’intero essere umano, del suo trovarsi nel presente, del suo essere storia, individuo, cultura e civiltà, della sua attitudine a progettare il futuro e soprattutto della sua necessità di interrogarsi sui quesiti esistenziali, della relazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. Questa forma suprema di conoscenza si invera non per mezzo di concetti, ma in un “oggetto” che può essere il marmo, la parola, il colore, il suono, la fotografia, la ripresa cinematografica ecc. La filosofia, come la scienza, servendosi della razionalità, “de-finisce” la realtà, le dà forma, la pone in ordine, la cataloga, la anatomizza, la viviseziona; l’arte, invece, è conoscenza di realtà in-formale, in-definita, non caotica però, molteplice, complessa, multiforme, contraddittoria, in divenire.
L’artista, pertanto, non è un filosofo, che organizza il suo pensiero secondo i princìpi di non contraddizione, di coerenza e di consequenzialità e neppure produce in modo in-effabile quasi fosse ispirato da una divinità, come pensavano gli antichi. Il processo di conoscenza artistica presenta tali e tante interconnessioni che è veramente arduo solo pensare di descrivere precise procedure, perché è il risultato della partecipazione dell’intero essere umano in tutte le sue componenti: fisiche (il poieén), mentali, percettive, emotive, sentimentali, consce, inconsce, progettuali, memoriali, individuali, relazionali e collettive (l’uomo è storia), per cui ogni de-finizione esclude parti consistenti di questo processo.
Ogni conoscenza è arte? L’arte rappresenta una, la più qualificante, modalità di conoscenza e la validità di un’opera sarà proporzionale all’ampiezza e alla profondità della sua portata conoscitiva. L’arte del “novecento”, immersa nella crisi di un pensiero che, scisso il significante dal significato, non poteva comunicare se non la negazione di ogni possibilità gnoseologica, si è prevalentemente concentrata su se stessa a descrivere gli strumenti (parola, segno, colore, forma, suono ecc.) fino alla propria negazione. Ma può essere considerata arte la negazione di se stessa? Può essere considerato cibo la negazione di ogni elemento commestibile?
Alla luce di tale aporia va affrontato anche il problema del rapporto tra stile e contenuto. Lo stile è il dasein, l’“esserci” dell’opera, della cosa, di una scultura, di un libro, di un quadro, di una sinfonia. Non confondiamo, però, il progetto con l’attuazione, perché esiste sempre uno scarto tra intenti e risultati. «Lo scultore pensa in marmo», sostiene Oscar Wilde. E la diversità di risultati non consiste nell’armonia, nella precisione, nella bellezza o nell’ingegno, ma nella resa, nell’effetto, nella potenza di una rappresentazione che nel veicolo stilistico riesce a fissare per mezzo della Weltanschauung individuale quella di un’epoca.
Ma l’arte non è solo conoscenza. Se, come afferma giustamente Dewey, l’arte è sempre più che arte, con Pareyson concludiamo che l’arte è sempre più che conoscenza:
Per la molteplicità degli atti e intenti e scopi dell’uomo, essa è sempre insieme professione di pensiero, atto di fede, aspirazione politica, atto pratico, offerta di utilità sia spirituale che materiale. Nel far arte, l’artista non solo non rinuncia alla propria concezione del mondo, alle proprie convinzioni morali, ai propri intenti utilitari, ma anzi li introduce, implicitamente o esplicitamente, nella propria opera, nella quale essi vengono assunti senza essere negati, e, se l’opera è riuscita, la loro stessa presenza si converte in contributo attivo e intenzionale al suo valore artistico, e la stessa valutazione dell’opera esige che se ne tenga conto. Anzi, l’arte non riesce ad essere tale senza la confluenza di altri valori in essa, senza il loro contributo e il loro sostegno, sì che da essa s’emani una molteplicità di significati spirituali e s’annunzi una varietà di funzioni umane. La realizzazione del valore artistico non è possibile se non attraverso un atto umano, che vi condensa quella pienezza di significati con cui l’opera agisce nel mondo e suscita risonanze nei più diversi campi e nelle più varie attività, e per cui l’interesse destato dall’arte non è soltanto una questione di gusto, ma un appagamento completo delle più diverse esigenze umane.
Il filosofo, quindi, affida agli artisti non solo di dire “come” è il mondo nel modo più completo, autentico e umano possibile, ma anche di “pro-gettare” il mondo, perché l’arte è arte non malgrado la filosofia, la teologia, la sociologia, la morale, la retorica, la scienza, la linguistica, la tradizione, i generi letterari, la storia, la biologia, la fisica, l’astronomia ecc., ma perché le diverse discipline proprio nella loro “sostanzialità” particolare sono dal genio “trans-formate” in arte. Come la “datità” umana non può essere scomposta nelle sue componenti (fisiche, chimiche, storiche, psichiche, sociali, culturali ecc.), così l’arte fa convergere in sé l’intera vita, l’intera realtà dell’artista, soggetto unico ed irripetibile e contemporaneamente uguale all’intera specie umana.
4. Qual è lo stato di salute della poesia oggi?
Sul tema “La poesia e la società contemporanea”, la rivista «Atelier» ha dedicato due convegni: il primo svolto a Palazzo Medici Riccardi di Firenze il 6 febbraio 2017, e il secondo alla “Sormani” di Milano il 12 aprile 2018, Nel capoluogo toscano la riflessione ha coinvolto i gruppi letterari, le case editrici, l’università e le riviste; nel centro lombardo si è inteso analizzare il rapporto tra poesia contemporanea e mass media.
Un tempo la scrittura in versi apparteneva alla Cultura Alta, inevitabilmente elitaria, chiaramente distinta dalla Cultura Popolare. La diffusione dell’istruzione permise a strati sempre maggiori della popolazione di raggiungere il gradino superiore. Nel frattempo i mass media, e soprattutto la televisione, riuscivano a costituire un legame tra le due posizioni nella Midcult, nella vana ricerca di proporre le stesse caratteristiche dell’Alta Cultura, dal momento che il tentativo di diffonderne i canoni ha prodotto l’effetto di stemperarli in una sorta di limbo. E la poesia contemporanea, in Italia almeno, è stata attratta nell’orbita di tale ambito con tutte le conseguenze facilmente immaginabili. Con questo non si intende deprezzare assolutamente la poesia popolare che nei secoli scorsi ha rappresentato una, se non la più importante, forma di cultura della maggior parte della popolazione. Ma la situazione attuale è radicalmente cambiata rispetto ai tempi passati grazie alla completa scolarizzazione della popolazione. Ora si tratta di gettare fasci di luce di comprensione e di interpretazione del fenomeno poetico che si è sottratto alla posizione che rivestiva fino agli Anni Settanta del secolo scorso.
Più volte abbiamo denunciato l’«omertà della critica» (Marco Merlin). E oggi, ancora più di vent’anni fa al tempo della nascita della rivista, questa latitanza costituisce uno dei motivi del declassamento della poesia. Sono finite le ideologie, sono finite le analisi strutturaliste e formaliste, ma rimane indispensabile formare studiosi di letteratura, docenti universitari, docenti di scuole superiori, scrittori in versi e lettori, a uno spirito personalmente critico. Se manca un simile elemento di consapevolezza, continueremo in una spirale di degrado di difficile soluzione.
Questa è l’inquietudine di coloro che non si limitano a produrre o a diffondere cultura, dal momento che abbiamo a cuore la presenza della critica nelle forme e nei processi pratici della poesia.
E il pericolo più preoccupante va rintracciato nel fatto che in un simile «livellamento meccanico» della percezione estetica vadano perdute, non viste, dimenticate le opere importanti che oggi vengono pubblicate, le quali da una parte sanno decrittare in modo “intensivo” la condizione attuale dell’essere umano e dall’altra riescono a prospettare orizzonti alternativi.
Scrive Tzvetan Todorov nell’ultimo suo libro, L’arte nella tempesta, a proposito della vicenda degli artisti russi all’epoca della rivoluzione sovietica: «I detentori del potere sono capaci di annientare quelli che vogliono sottomettere, ma non hanno alcuna presa sui valori estetici, etici e spirituali, provenienti da questi artisti […]. Senza queste opere l’umanità non potrebbe sopravvivere né allora né oggi».
La poesia ha superato le prove della dittatura comunista, fascista e nazista. Riuscirà a superare le difficoltà che sta incontrando nella civiltà di massa? Purtroppo nel mare magnum della cultura acritica si smarriscono le differenze e ogni testo entra nell’asettico grigiore dell’indifferenza.
5-6. A tuo avviso perché siamo più un paese di poeti che non di lettori? Scuola, librai, media, editori, poeti: di chi è la responsabilità se la poesia si legge così poco?
Quando alla fine degli Anni Sessanta ho affrontato l’esame di maturità, ho portato come programma di letteratura Ungaretti, Montale, Quasimodo, Saba, poeti viventi oppure da poco scomparsi. Oggi, nella quasi totalità dei casi, questi sono ancora gli stessi poeti che i nostri giovani conoscono. Eppure sono passati cinquant’anni. La riforma Gentile tra poco compirà cento anni, ma i docenti non hanno ancora cambiato la scansione dei programmi delle materie di carattere storico. È fondamentale, ripetevo durante gli incontri di aggiornamento, che i nostri giovani escano da una scuola superiore con le conoscenze che arrivano al “giorno prima” dell’esame. Per questo abbiamo fondato «Atelier», per questo abbiamo organizzato corsi di aggiornamento con la pubblicazione degli atti, per questo ho inserito nei programmi dei corsi abilitanti per docenti la poesia e la narrativa contemporanea.
Quali i motivi di questo scollamento? Dopo gli Anni Settanta si è verificato un progressivo distacco tra il lettore e la poesia contemporanea, come pure tra l’università e la poesia contemporanea, producendo una frattura con la tradizione, al punto che Marco Merlin parla di “anello che non tiene”, al punto che negli Anni Novanta si parlava di “morte della poesia” e della convinzione che nessuno più scrivessero più versi. Toccò al critico argomentare che in realtà si trattava soltanto di mancanza di visibilità, perché la poesia continuava a essere praticata con cura e con amore. I suoi studi sono stati raccolti nel volume pubblicato nel 2005 da Interlinea Poeti nel limbo. Studio sulla generazione perduta e sulla fine della tradizione.
Quali i motivi? Ne indicherò alcuni: la corrente dell’Ermetismo e del conseguente sottobosco postermetico con tutta una serie di oscurità secondo la falsa convinzione che quanto più un testo è incomprensibile tanto più è profondo e questo ha allontanato il lettore comune; le Neoavanguardie che in pratica hanno giustificato ogni tipo di espressione; la critica strutturalista, incapace di formulare giudizi di valore, il disinteresse progressivo delle grandi case editrici che puntavano sul romanzo come terreno economicamente più redditizio e soprattutto il distacco degli studi universitari dalla produzione attuale. Quest’ultima causa ha prodotto una negativa reazione a catena: i docenti, usciti dalle università, non conoscono la poesia contemporanea e quindi non ne trasmettono la passione agli studenti.
Ma la poesia è più forte di ogni problema contingente e continua a essere amata, per cui risorge in forme diverse, anche perché lo studio e l’amore per i classici non è mai venuto meno. Si calcola infatti che circa tre milioni di Italiani abbiano scritto almeno un testo di poesia, mentre i lettori di testi contemporanei non arrivano ai diecimila.
7. Cosa occorrerebbe fare per appassionare alla poesia?
Se, come crediamo, la poesia “rivela” lo “spirito” di un periodo storico, la situazione attuale assume tinte veramente preoccupanti. La parabola iniziata con la distruzione dell’eredità, operata dalle Avanguardie, oggi sta giungendo alla “soluzione finale”: la tecnologia, supportata dal mercato, chiusa nella dimensione di un puro e semplice presente, impedisce la formazione di una scala di valori: tutto è equivalente.
Che fare? Come salvare la poesia e il suo messaggio di umanità?
In primo luogo, denunciando il pericolo, opponendosi a un tipo di letteratura “consumistica”, ma soprattutto coinvolgendo tutti coloro che ancora credono negli ideali di una poesia, di una letteratura, di un’arte “a misura d’uomo”.
Occorre, pertanto, un sforzo comune da parte di tutti coloro che credono nel valore “umanistico” della grande poesia per obiettivi comuni:
a) predisporre i corsi universitari di letteratura moderna e contemporanea sui più importanti autori del Secondo Novecento e attuali;
b) ugualmente la scuola superiore con trattazioni adeguate e non solo con accenni;
c) i compilatori di testi scolastici con presentazioni degne degli autori significativi e non soltanto con due paragrafi e tre testi;
d) i mass media (televisione compresa) con uno spazio alla poesia, e non solamente alle “icone” pubblicitarie;
e) la critica con un coraggioso canone, pur provvisorio;
f) le grandi case editrici con la pubblicazione di testi in base al valore e non alle previsioni commerciali;
g) i centri culturali, le associazioni con il rifiuto dei criteri di autorefenzialità;
h) le riviste di poesia ugualmente con il rifiuto dei criteri di interesse e di autoreferenzialità;
i) tutti coloro che hanno a cuore il salvataggio della grande poesia, con la diffusione di un messaggio chiaro e non equivoco sul valore della scrittura in versi.
E queste sono solo indicazioni. Sono certo che ci sono molte altre possibilità-
Ci riusciremo? Non so, so soltanto che «Atelier» non smetterà di lottare per la grande poesia e continuerà a fare appello a tutte le forze che in essa credono.
8. Gli Instapoets avvicinano nuovi lettori agli scaffali di poesia?
Il convegno di Milano ha posto in luce che esiste una vera e propria “fame di poesia”, ma anche che la situazione attuale non aiuta a sollevare neppure in parte il “sottobosco” a un livello accettabile. Parlo di alcuni festival, letture collettive, blog, pubblicazioni senza scelta preventiva.
La permeabilità tra i due mondi è senza dubbio un fatto naturale. Oggi poi la “liquidità” culturale in cui viviamo crea sovrapposizioni di aree molto più ampie, grazie soprattutto alle estetiche pseudoromantiche e avanguardistiche.
Anche nel passato troviamo figure analoghe, come i “librettisti” del melodramma. Metastasio fu poeta e librettista; ad altri, come Da Ponte o come Eugène Scribe, risulta difficile attribuire la qualifica di poeta, proprio perché le parole venivano strutturate in funzione della musica e nessuno, almeno fino a oggi, si è permesso di paragonare Parini con uno di questi due artisti. Questo non significa che i testi delle poesie non possano essere musicati: pensiamo all’incontro di Dante, descritto nel canto II del Purgatorio, con l’amico Casella, il quale inizia a cantare una lirica del poeta: «Amor che ne la mente mi ragiona / cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona». Personalmente ricordo di aver cantato in coro melodie scritte su poesie del Petrarca, del Tasso e anche del Carducci.
Ma, al di là di ogni coincidenza, è importante ribadire che la poesia “umanistica” possiede orizzonti e strumenti e stile diversi dalla poesia “sottobosco”, perché, a nostro parere, rappresenta, insieme alle altre arti, il più completo modo di conoscenza.
Come ho scritto e chiarito più volte, ogni forma di manifestazione che avvicini il pubblico alla poesia, va sostenuta e valorizzata, a condizione che… ripeto… a condizione che ci si renda conto dei limiti. Il problema riguarda la misura, le pretese e la consapevolezza. Nessun testo va disprezzato, nel modo più assoluto, ma nessun autore si arroghi la presunzione dell’eccellenza.
Già Petronio all’inizio del Satyricon si lamentava che ut quisque versum pedibus instruxit sensumque teneriorem verborum ambitu intexuit, putavit se continuo in Heliconem venisse, e cioè che, non appena una persona avesse raggiunto la capacità di strutturare un verso e di esprimere il proprio sentimento in un modo più tenero del solito, immediatamente pensava di aver raggiunto l’eccellenza in poesia.
Ai nostri giorni il problema è ancora più semplificato, da una parte perché non c’è bisogno di imparare la metrica e dall’altra perché non è necessario un sentimento un po’ più tenero; basta andare a capo ogni tanto! I gusti sono così personali, le eccentricità sono così esaltate che qualsiasi prodotto troverà estimatori e critici (?) favorevoli. Viviamo nella stagione di vero e proprio “dilettantismo arrogante”, che impedisce un misurato spirito di umiltà che aiuterebbe anche a migliorare se stessi, a ricercare un livello superiore e a far tesoro della lezione dei classici.
9. In futuro si leggerà più o meno poesia?
Mi auguro proprio che in futuro si legga ancora poesia e me lo auguro condividendo il parere di Alfonso Berardinelli: «La civiltà si impoverirebbe molto se la letteratura sparisse o diventasse un puro divertimento, uno svago passeggero e superficiale». E il pericolo del quale è veramente urgente prendere consapevolezza consiste nel fatto che «la cattiva letteratura “serve” a mettere in ombra quella buona, quella che merita di essere letta» diventando dannosa, perché inevitabilmente crea contagio e produce nefaste conseguenze. «Ma il “libro-svago” e il “libro-non problematico” annunciano la fine (desiderata?) dello spirito critico e della cultura come critica dell’esistente: annunciano cioè “un mondo senza libertà”. E quando le società democratiche aspirano a fuggire dalla libertà, quando danno segni di preferire qualche forma di servitù volontaria, la democrazia comincia a morire in spirito, anche se le istituzioni continuano a fingerne l’esistenza» (Alfonso Berardinelli, Vargas Llosa tra romanzo e democrazia, «Avvenire», 18 gennaio 2019).
10. Per chiudere l’intervista, ci regali qualche tuo verso amato?
Mi metto in gioco anch’io nella consapevolezza dei miei limiti:
da Attestato (2015)
La terra è ancora dura
nell’alba della Pasqua:
impregnato di neve
sferza le piante
il vento lungo la pianura.
I ciliegi si sfaldano
mentre attendi il calore.
Tu squadra le parole
piatte, insipide, pagina per pagina…
Riuscirà mai a ritornare
l’estate anche quest’anno?
Perfida estate,
estate senza mare.
Intervista a cura di Andrea Cati