Cristina Annino


Lasciare un ospedale con un lento
giro di umidità, poi le finestre
chiare senza uccelli, in una mattina
fredda, dicembre 21, desiderare
te all’uscita che risolvi ogni frase maledetta,
col cappotto e le giarrettiere indorate,
feroce dolce scandalo,
il tuo corpo invade la cinta dei muri.
Ma non ci sei;
ti ricompongo allora:
le mani fuori che saluti sul cappotto duro,
cara presenza di questa radice
comune in cui si salta, buffi addendi
o ruote secolari.
Ecco, fuori dai vetri, aria fredda e lo spavento
che senti ti si ghiaccia negli occhi
dove saggiamente sbatti, e non lo sai,
il tuo modo di sorridere
rapido fisso come i gufi.
Tralasciare oggi pensieri muti
eppure vivi in qualche nervo gonfiato,
vuoti come vuote stanze di ospedale,
in una mattina senza ali, che pensi
la nebbia sale via da ogni densità
e ci fa meno densi,
passare dalla portineria…

Magnificat. Poesie 1969-2009 (Puntoacapo Editrice, 2009)

Michela Zanarella


Tornare nei luoghi delle trascorse memorie

Tornare nei luoghi delle trascorse memorie
ho temuto di non riconoscere più
il posto dove reclamavo stelle nel fieno.
Mi guadagnavo una carezza di sole
mentre provavo a crescere
sotto lo sguardo fiero delle montagne.
Rimbombava giù nel dirupo
l’eco della mia infanzia
come acqua di sorgente tra le rocce.
Avevo l’espressione di chi è capace
di far rivivere le voci assenti
ero presa a raccontare la neve di ieri
l’eternità aveva previsto che io conservassi
tutto ciò che si inerpica al cuore.

Recupero dell’essenziale (Interno Libri Edizioni, 2022)

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Fabio Franzin


Co’a stessa franza scura

Per Lorenzo Parelli

Te ‘vea su el casco, ‘ò lèt
tii giornài; istèss no l’é bastà
co’ chea putrèa de fèro
te ‘a ‘rivà tea testa, là
sot el caroponte 12648.

Poro Lorenzo, pori nostri
fiòi tornàdhi mandàr
al massacro a gratis
un sècoeo dopo, drento
fabriche, cantieri, oficìne,
fra trincee de scafài,
postazhión de machinari
drio i reparti, ‘e armadhùre.

Te ‘à ‘a stessa età de mé fiòl,
‘i stessi òci bisi, tea foto,
‘a stessa franza scura sora
‘a front (quea che tignè
butàdha in vanti, a cop,
come a ‘scónderve da ‘sto
tenpo can. Nianca quea
te ‘a salvà). Anca mé fiòl
l’à fat un de ‘sti stèig
scuòea-lavoro (un mese
intièro te un magazìn
de logistica, in istà,
fra bancài e mùeti,
caldo, camii e osàdhe.
Nianca un cafè i ghe ‘à
pagà, nianca ‘na cocacòea).

E mì ‘dèss lo urle, te ‘ste
paròe che scrive prima
del mé turno te un de ‘sti
posti senza pì ànema,
miràndo te un de ‘sti
posti de sfrutamento

‘i schèi che no’ ghe dé
a ‘sti fiòi, chea mancia
che saràe giusto darghe,
che sparagné pai vostri
suv, pae vostre pissine,
i sia màedeti, màedeto
el vostro èsser despiasudhi,
‘dèss – pì pae rogne
che ve speta, che pa’a
tó vita zovane, Lorenzo -,
i ‘é maciàdhi de sangue,
i spuzha de carogna.

‘Dèss resta ‘e tó ròbe
sequestràdhe pa’ l’inchiesta:
‘a tuta blè da operaio
(dea tó scuòea, nianca
del parón – sparagnà
anca quea), guanti,
scarpe, ociài. Resta
i tó sogni strazhàdhi,
drento chel capanón,
e un doeór duro, par tuti.

*

Con la stessa frangia scura

Indossavi il caschetto, ho letto
nei giornali, però non ti ha protetto
quando quella putrella di ferro
ti ha colpito nella testa, là,
sotto il carroponte 12648.

Povero Lorenzo, poveri nostri
figli mandati di nuovo
al massacro gratis
un secolo dopo, dentro
fabbriche, cantieri, officine,
fra trincee di scaffali,
postazioni di macchinari
lungo i reparti, i ponteggi.

Hai la stessa età di mio figlio,
gli stessi occhi bigi, nella foto,
la stessa frangia scura sopra
la fronte (quella che portate
pettinata in avanti, a tegola,
come per celarvi a questo tempo
cane. Neanche quella
ti ha salvato. Anche mio figlio
ha fatto uno di questi stage
scuola-lavoro (un mese
intero in un magazzino
di logistica, in estate,
fra bancali e muletti,
caldo, camion e grida. Neanche un caffè gli hanno
offerto, neanche una coca-cola).

E io ora lo urlo, con queste
parole che scrivo prima
del mio turno in uno di questi
luoghi privati dell’anima,
mirando verso uno di questi
posti di sfruttamento

i soldi che non date
a questi ragazzi, quella mancia
che sarebbe giusto riconoscergli,
che risparmiate per i vostri suv,
le vostre piscine
siano maledetti, maledetto
il vostro dispiacere, adesso – più per le rogne
che vi aspettano che per la
tua giovane vita, Lorenzo -,
sono macchiati di sangue,
puzzano di carogna.

Ora restano le tue cose
sequestrate per l’inchiesta:
la tuta blu da operaio
(della tua scuola, neanche
del padrone – risparmiata
anche quella), guanti,
scarpe, occhiali. Restano
i tuoi sogni infranti,
dentro quel capannone,
e un dolore duro, per tutti.

 

Lorenzo Parelli 18 anni, allievo della 4a meccanica industriale all’istituto Bearzi di Udine, è morto alle 14.30 del 21 gennaio 2022, nell’ultimo giorno di stage gratuito, schiacciato da una putrella d’acciaio all’interno della Burimec di Lauzacco di Pavia di Udine

Allen Ginsberg

Leggendo gli scritti di Bob Dylan

Ora che restano polvere e cenere
ora che pelle umana resta
Eccoti Bob Dylan una poesia
per l’alloro che hai in testa

La forma più sincera di lusinga
dicono che sia l’imitazione
ho spezzato così il mio verso lungo
per scrivere a tuo modo una canzone

Le “catene di immagini dardeggianti”
che di notte apparivano
eran visioni esaltate di braccianti
che la luce degli Angeli intuivano

E benché la saggezza sia arrivata
lasciandoti solo con la sua crusca
ricorda che gli Angeli chiameranno
la tua anima affinché rinasca

Non fu la droga a darti verità
non furono i soldi di una rapina
ma Dio stesso che sfolgorante entrò
nella tua anima divina.

 

Primi blues (Il saggiatore, 2011), trad. it. L. Fontana

Tomasz Różycki


La vera fine della guerra

Un mattino tutti i treni tornarono in stazione
vuoti – ci si poteva levar le scarpe e andar scalzi
verso casa. Lungo binari e malva silvestre
con quello strano senso di leggerezza

e che gli oggetti trovati ora avrebbero pesato ancor di più:
fischietto, orologio, una macchina fotografica rotta.
Per fortuna la maggior parte di essi esisteva
come esistevamo noi, appena salati, nell’aria.

L’intera casa era pure un edificio di fili
di ragno, che un tremolio delle palpebre avrebbe abbattuto.
Per un attimo restammo sospesi così nel caldo
respiro dell’estate, finché un bambino, che sospirava

nel sonno, si alzò e vide un giardino pieno di piume.

Dicembre 1998

Antimondo (Edizioni della Meridiana, 2009), traduzioni di Leonardo Masi e Alessandro Ajires

Gino Scartaghiande


È immobile

La polvere si è accumulata.
Una mano sottomessa all’osso
e alle intemperie. Non farmi
male se vieni ad amarmi
stanotte.
Quello sfumare di colori
nel rettangolo di cielo
alla finestra. Il rosso
vicino quanto la stella.
Ma se davvero, come dici,
il pesco fiorisce nei
tuoi inverni, allora
penetrami più forte che puoi.
La notte d’antenne.

Sonetti d’amore per King-Kong (Cooperativa Scrittori, 1977)

Foto di Dino Ignani

Anna Segre

Foto di Pierfrancesco Giordano

Maternità
Immahut
אימהות

Grazie a dio,
che forse esiste,
niente figli.

Grazie a un caso
o a una scelta istintiva
o a una remora
che ha trascinato la questione
fino oltre il limite,

non sarò io
ad abbandonare.
Non sarò
la tua risposta sbagliata,
la tua delusione più cocente,
il demone che ti porti dentro.
Non sarò io
il primo tradimento,
il coltello ficcato in gola,
il fantasma che ti segue
in sogno,
l’ombra lunga delle giornate
fredde.

Non sarò io
la viscerale incomprensione,
il ricatto fino all’ultimo respiro,
il picchetto sbandierato d’amore
oltre il quale la disubbidienza
entra nell’illegale biblico.

Lontana più di un metro,
la lama della mia lingua non ti taglia,
ti sfiora.
A una distanza antalgica
i miei tentacoli di bisogno
non arrivano ad avvilupparti,
a soffocarti.

La gioia
di non sapere
che significa
quel potere senza controllo;
di non aver dovuto capire
la fatalità dei miei difetti
addosso a qualcun altro.

Il sollievo di non sentire mai
lo strappo dalla mia pancia,
l’altro da me, che è stato me,
e che mi accusa.

La certezza che nessun processo
né nessuna gogna
saranno mai come un figlio
che ti imputa le tue vere colpe.

Un angelo ha steso la sua ala
sulla mia testa,
e mi ha risparmiato
dalla conoscenza carnale
della maternità,
dalle quinte di dolore
che questo teatro
vuol farmi credere di amore.

La distruzione dell’amore (Interno Poesia Editore, 2022)

 

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Manuela Giasi


Shake your feelings

Pesca, gancio,
scendi più che puoi.
Lenza, calati nel pozzo,
nell’abisso che non sai di avere.
Raccogli lo stacco netto della fine,
il taglio preciso della conclusione,
la triste nenia dell’addio.
Pescali dentro di me
con aghi ed ami aguzzi,
come pesci argentei.
Usa reti e canne e uncini
per raccattarli su,
tirarli fuori all’aria
e poi rigettarli dentro me
più aperti e sciolti, meno spaventosi,
perché dovranno farmi compagnia.
La desolazione nitida del vuoto
che si apre e andrà riempito
con pazienza, e con una mano che ripete
silenziosa gesti conosciuti e lisci
come stoffe che ti confortano la sera.
Sapere che ti abituerai,
e che non sarà poi male questo giorno.
E nonostante la rabbia e la distanza,
e la delusione che ti si è insinuata dentro
come acqua stagnante in una crepa,
producendo umido e perdendo gocce
dal soffitto,
qualcosa collassa e ti si rompe dentro
malgrado la durezza
che eri convinta fosse tua
come il fazzoletto nella borsa.
Anni, decenni ed angoli,
volti, vestiti e nomi e muri
che scompariranno nel passato
contro la tua volontà,
più forti, freddi, pietrosi e indifferenti
alla tua apparente, e finta, indifferenza.

Inedito

Ana Blandiana

ana_blandiana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per scelta mia

Ho cominciato con poco, senza una vera colpa,
un gesto mancato, un sorriso trattenuto,
e quale ecatombe di cari morti ora –
per scelta mia, per scelta mia, per scelta mia,
interdetto, punito, soppresso.
Da tempo è scomparsa ogni solidarietà fra me
e gli alberi
e il cenno della fonte che mi avvertiva
quando era avvelenata.
Me ne starò ferma, quando gli uccelli imparano a volare
per paura se mi avvicinano
che io li uccida?
Quando le serpi si nascondono in terra,
i vermi nelle mele,
e l’erba più non osa nei dintorni
accogliere le foglie che cadono?
Quando, atterrito, l’universo contempla in me
un senno che non mi aveva dato?

 

Un tempo gli alberi avevano occhi (Donzelli, 2004), trad. it. B. Frabotta, B. Mazzoni

Gad Kaynar

שפת אמי

 

כְּשֶׁנּוֹלַדְתִּי הָיְתָה שְׂפַת אִמִּי אֲסוּרָה

גַּם אִמִּי הָיְתָה אֲסוּרָה כִּי כְּשֶׁנּוֹלְדָה

נֶחְגְּגָה לֵדָתָהּ בְּשָׂפָה אֲסוּרָה.

וְהִיא מֵעַטָּה לֶאֱכֹל, וְהִשְׁתַּדְּלָה לָלֶכֶת

בַּצְלָלִים כְּדֵי לֹא לְהַטִּיל אֶת צִלָּהּ,

כְּדֵי שֶׁרְזוֹנָהּ לֹא יַזְכִּיר מֶה עָשׂוּ

אֵלֶּה שֶׁדִּבְּרוּ בִּשְׂפָתָהּ וּמֶה חָבָל

שֶׁלֹּא עָשׂוּ גַּם לָהּ.

וּכְשֶׁהָיִיתִי מִתְפָּרֵץ לַכְּבִישׁ וְהִיא

אָמְרָה תִּזָּהֵר בִּשְׂפָתָהּ הָאֲסוּרָה

הִכִּיתִי אוֹתָהּ

וְנָשַׁכְתִּי בִּבְשַׂר זְרוֹעָהּ כְּדֵי

לְקַעְקְעָהּ

כְּדֵי שֶׁיִּרְאוּ שֶׁאֲנִי לֹא

מִדּוֹבְרֵי הַשָּׂפָה הָאֲסוּרָה.

שֶׁדָּבָר אֵין לִי אִתָּהּ.

 

La lingua di mia madre

Quando sono venuto al mondo, la lingua di mia madre era vietata
e anche mamma era proscritta, poiché la sua nascita
era stata celebrata in una lingua bandita.
Mangiava poco e cercava di camminare
nell’oscurità perché non si vedesse alcuna ombra
perché la sua magrezza non rammentasse cosa avevano fatto
quelli della sua lingua e quale peccato fosse
che non l’avessero fatto anche a lei.
Quando mi buttavo in strada e lei
diceva Achtung nella sua lingua vietata
la picchiavo
e le mordevo la carne dell’avambraccio per
rimuovere il tatuaggio
e mostrare che non
è mia la lingua proibita.
E io e lei non abbiamo nulla a che spartire.

 

Traduzione in italiano di Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano