Il celibe
Lampada sulle carte abbandonate,
e intorno notte fin addentro al legno
degli armadi. Egli poteva perdersi
nella sua stirpe che ora si estingueva con lui;
e, quanto più leggeva, più pensava avere in sé
il loro orgoglio ed essi tutti il suo.
Stavano alle pareti altere, rigide,
le sedie vuote e nient’altro ostentavano
che la propria grandezza gli arredi sonnolenti.
Discendeva sui pendoli la notte
e tremante dal suo aureo mulino
scorreva, macinato in fine polvere, il suo tempo.
Ma lui non lo prendeva. Strappava febbrilmente
altri tempi ai suoi avi come se
dai loro corpi levasse il sudario.
Poi cominciò a parlare sottovoce (nulla gli era
lontano). E lodava l’autore di una lettera
quasi a lui fosse scritta: Ma come mi conosci!
E batteva la mano, al suo interno illimitato,
schiudeva una cortina, una finestra, tacito –
perché, quasi compiuto, là s’ergeva il fantasma.
Poesie. 1907-1926 (Einaudi, 2014), a cura di A. Lavagetto