Mariachiara Rafaiani


Tagliatelle al kamut
ed i giri della luce
intorno al tavolo
Il cameriere ci chiede,
come sempre, naturale
o frizzante? Cosa volete?
Cosa vi serve?
Il discorso su più piani
osserva la partenza
e la resa
e gli occhi indugiano
fino ad attraversare le orbite
“io mi chiedo
cosa m’importa che resti?”

guardavo la parte illuminata
degli alberi e mi chiedevo
cosa avrei voluto mettere lì
in quella luce. Mi avvicino
abbasso la voce
“Cosa m’importa che resti?”

è primavera, è caldo,
giriamo intorno
all’isolato dei pollini
costeggiamo i lavori
per la metropolitana
mi accompagni
alla fermata del tram

“Devi capire cosa t’importa che resti”

Via Cadore, Milano, 2017

Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90. Vol. 2 (Interno Poesia Editore, 2020) Ph. Michele Milani


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Tahar Ben Jelloun

Tahar Ben Jelloun

 

La mia patria è un volto

La mia patria è un volto
un chiarore essenziale
una fontana di sorgente viva
È mano che attende
trepida il crepuscolo
per posarsi sulla mia spalla
È una voce
di singhiozzi e di risa
un sussurro per labbra che tremano
La mia patria non ha altro orizzonte
che trattenuta tenerezza
negli occhi neri
una lacrima di luce
sulle ciglia
È un corpo di tormenti
preziosi
come un fascio di radici
vicino alla tera calda
È poesia
generata dall’assenza
un paese che nasce
sul bordo del tempo e dell’esilio
dopo un sonno profondo
sospeso a un albero
dai fragili rami
agitati nel vento
La mia patria è un incontro
avvenuto su un letto di foglie
una carezza per dire
e uno sguardo per dormire
paese lontano dalle parole
tanto da calpestare il ricordo
Tra le nostre dita
un ruscello
perché il silenzio sia
Il mio viso è di quel cielo ostinato
vuoto
ferito dall’eleganza del rifiuto
La mia caduta il nostro amore
albero dissanguato
sfigurato dalla grazia spezzata
lo stesso dolore
ha afferrato i nostri corpi
Restano quei versi
cordoglio tardivo
per una patria che non ha più volto.

Stelle velate. Poesie 1966-1995 (Einaudi, 1998), trad. it. Egi Volterrani.

Alen Bešić


purgatorio

Ti supera la verità su te stesso,
quell’aggregato di piccole e grandi oscurità. Steso
da un muro all’altro, come il filo della biancheria
nella camera dei poveri, il desiderio fiacco: bisogna
riconciliarsi con la propria infanzia
. Permettere
al ricordo feroce di dirsi: ti raccogli intorno
alle estati monche senza il padre, il vuoto generosamente
colmato dagli zii, nonni, nonne o lo stucchevole gusto di tulumbe
della pasticceria cittadina. Intorno al respiro sommesso
del quattrenne che lungo una ripida scala scende
come in purgatorio nella bettola fumosa e tra
i giocatori di tavla, da sotto in su, si sforza
di distinguere il viso familiare. E la sua vergogna
aghiforme, mentre ritorna da solo, compito non assolto,
per trasmettere alla madre un messaggio inventato: «Ha detto
di fare un altro giro.» Fra te
e lui – un’intera lingua. È una giornata di maggio.
Nella nassa delle costole si dibatte il cuore.

 

Golo srce [Cuore nudo], 2012 – Traduzione Marija Bergam

Foto di Ciprian Hord

Francesco Ottonello


Alla fine del semestre

Saltare sulla bicicletta di uno
che dà brividi alla pelle di nuovo viva,
essere riportato nella nuova casa
ormai vecchia di qualche stagione,
dimenticare il cellulare nel parco
la settimana prima di partire perdere tutto

senza numeri senza foto né ricordi
pian piano sbiadiranno i volti e i nomi,
e aspettare che vengano a prenderti
e di nuovo essere
riportato nella vecchia casa,
sapere che è breve il tempo della vita.

Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90. Vol. 2 (Interno Poesia Editore, 2020)
Ph. Michele Milani


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Federica Gallotta


Disfatta nella forma qua – aspetto
sono liquido: miscuglio decoroso, mi adatto
a ogni tua richiesta, sono ancella: alla pigrizia
di fine giornata – lavoro affanno o scocciatura tua.
Ti avvolgo: mi faccio coperta placenta e dissolvo
sto zitta. Approfitta: sono i giorni della muta
il corpo molle e delicato, malleabile scorza.

Domani tornerà la forza, le chele che attanagliano.
Sconfiggerò il leone.

Modi indefiniti (Interno Poesia Editore, 2020)


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Giusi Montali


il corpo si avvia, proietta luce opaca,
la catena tiene, discende un flusso d’aria,
una donna chiude le palpebre, dischiude
le labbra, appoggia la nuca tra il braccio e
la spalla, fiorisce un loto nell’occipite,
ruota in luce viva, il respiro è un mare,
si aprono le vertebre, si svela un monte,
la lingua disserra il bianco, lo raccoglie,
mi acceca:

la ciclotimia è l’ultima fiducia della specie

Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90. Vol. 2 (Interno Poesia Editore, 2020)

 

Carol Ann Duffy

Carol-Anne-Duffy-

 

La signora Van Winkle

Sprofondai come un sasso
nelle acque fonde e stagnanti della mezza età,
con acciacchi da capo a piedi.

Mi buttai sul cibo.
Rinunciai a fare moto.
Mi face bene.

E mentre lui dormiva
mi trovai dei passatempi.
Dipinsi. Visitai ogni sognato monumento:

la torre di Pisa.
Le Piramidi. Il Taj Mahal.
Feci un piccolo acquerello di ognuno.

Ma la cosa migliore,
quello che batté di gran lunga tutto il resto
fu l’addio non troppo sofferto al sesso.

Fino al giorno in cui
tornai a casa col mio pastello del Niagara
e lui seduto sul letto agitava un tubetto di Viagra.

 

La moglie del mondo (Le Lettere, 2002), a cura di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti

Lubi Prates

Dei o que tinha (fragmentos)

1.

te dou de comer
na palma da minha mão.

é ancestral
o gesto de agachar,
se reconhece:

me curvo ao chão
então, você vem,
faminto.

não distingue
entre o que é comida
e quem eu sou.

penso domar a fera,
as pontas dos meus dedos se vão.

não distingo
se é dor ou prazer
me transformar em seu alimento.

voltarei amanhã,
você sabe.

2.

sequer havia luz,
mesmo assim,
aprendi a te alimentar
primeiro.

antes de qualquer verbo
ou nome:

não havia chamado,
ainda não há.

embora sequer houvesse luz
e tendo, ainda, olhos
preservados por você,
me guiei pelo cheiro da sua boca
entreaberta.

agachado,
com minha pata de bode,
te dou de comer
antes de seguir, veloz.

3.

esse chão
criamos nós

a partir do nada que havia:
era apenas linguagem.

na palma da sua mão
dei o que eu tinha,

cuspi a palavra terra
que você moldou com sua saliva.

fez-se lama.

nomeamos assim,
essa porção ínfima
onde deitamos.

 

*

 

Ho dato ciò che avevo (frammenti)

 

1.

ti do da mangiare
sul palmo della mia mano.

è ancestrale
il gesto di accovacciarsi,
si riconosce:

mi piego a terra
tu allora vieni
affamato.

non si distingue
ciò che è cibo
da ciò che sono io.

penso di domare la bestia,
le punte delle mie dita se ne vanno.

non distinguo
se è dolore o piacere
trasformarmi nel tuo alimento.

tornerò domani,
lo sai.

2.

neppure vi era luce,
eppure,
ho imparato ad alimentarti
per primo.

prima di qualunque verbo
o nome:

non vi era un richiamo,
ancora non c’è.

malgrado non ci fosse luce
e avendo ancora gli occhi
risguardati per te,
mi sono fatta guidare dall’odore della tua bocca
socchiusa.

accovacciato,
con la mia zampa da caprone,
ti ho dato da mangiare
prima di procedere, veloce.

3.

questo pavimento
lo abbiamo creato noi

dal nulla che c’era:
era solo linguaggio.

nel palmo della tua mano
ti ho dato ciò che avevo,

ho sputato la parola terra
che hai plasmato con la tua saliva.

si è fatto il fango.

nominiamo così,
questa porzione minima
dove ci sdraiamo.

 

Traduzione di Francesca Cricelli

Lorenzo Marinucci


君思ひ
揺れずスマホが
重く成る

Kimi omoi
yurezu sumaho ga
omoku naru

Thinking of you
my messageless phone
feels a bit heavier

Mentre ti penso
questo quieto telefono
un po’ più pesante

Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90. Vol. 2 (Interno Poesia Editore, 2020)

 

Lino Curci


Messaggio

Sono qui, sulla terra, in una calma
sera d’estate e il disco della luna
arde vicino, immenso. Odo i miei passi
sul selciato, la mia dura presenza
che sola incrina di rumore e affanno
il perfetto silenzio, e l’eco breve
che subito si spegne. Odo il mio corpo
e mi repugna. Mai l’anima nuda
fu più pronta a seguirti, invito, a uscire
dalla misura che la stringe. Vedo
la mia sostanza a me fatta straniera,
gli uomini andare nella notte, vasto
brulichio sul pianeta ancora caldo
di spento sole, e questo mio passaggio
nella serena luce della luna,
crudele e antica. Mi fu scelto un mondo
per vivere, fra tanti: e sono qui,
nel chiaro cielo di un’estate, un uomo
che cammina sgomento, creatura
che qualcuno contempla, che ebbe un luogo
per morire e pregare appena: «guarda
colui che passa!» E solo in quest’altura
d’astri, remoto da me stesso, ostile
alla forma dì vita in cui consisto,

mi riconosco di uno stampo eterno.

 

Splendore della poesia italiana (Ceschina, 1958)