Edoardo Sanguineti


Radiosonetto

il mio libro sei tu, mio vecchio amore:
ti ho letto le tue vertebre, la pelle
dei tuoi polsi: ho tradotto anche il fragore
dei tuoi sbadigli: dentro le tue ascelle

ho inciso il mio minidiario: il calore
del tuo ombelico è un tuo glossario: nelle
xilografie delle tue rughe è il cuore
dei tuoi troppi alfabeti: alle mammelle

dei tuoi brevi capitoli ho affidato,
mia bibbia, le mie dediche patetiche:
questo solo sonetto, io l’ho copiato

dalla tua gola, adesso: e ho decifrato
la tua vagina, le tue arterie ermetiche,
gli indici tuoi, e il tuo fiele, e il tuo fiato:

 

Mikrokosmos. Poesie 1951-2004 (Feltrinelli, 2004)

Allen Ginsberg

Che fortuna

Son fortunato che ho tutte le dita della mano destra
Che a far pipì non sento tanto male
Che la pancia mi funziona
Che di notte a letto dormo bene, la pennica nel pomeriggio
Che posso far due passi con calma su First Avenue
Che metto insieme duecentomila all’anno
Cantando Eli Eli, scrivendo quello che mi passa per la testa, cesellando primordiali ghirigori, Insegnando al college buddhista, scattando con Leica foto di fermate d’autobus da dietro la la finestra dei miei occhi

E sentire le sirene delle ambulanze, il profumo dell’aglio e della ruggine, il sapore dei cachi e della passera di mare, camminare scalzo al piano di sopra con le piante dei piedi un po’ desensibilizzate
Fortunato che posso pensare, e che in cielo può nevicare

 

Morte e fama (Il Saggiatore, 2009), trad. it. L. Fontana, L. Carra

Margaret Atwood

 Abitazione

Il matrimonio non è
casa neppure tenda

è antecedente, e più freddo:

l’orlo della foresta, l’orlo
del deserto
le scale grezze
nel retro dove stiamo accovacciati
all’aperto, e mangiamo il popcorn

l’orlo del ghiacciaio che retrocede

dove penosamente stupiti
di essere sopravvissuti fino
ad ora

impariamo ad accendere il fuoco

 

Poesie (Bulzoni, 1986), trad. it. A. Rizzardi

Edna St. Vincent Millay

Nel dorato bacile d’un gran canto
versiamo tutta la nostra passione;
si giacciano abbracciati gli altri amanti
nel riposo d’amore noi parliamo
con la lingua di tutto il mondo: il sangue
che s’agita, la lunga inerzia, i fremiti,
le calde palme supplici all’ospite che
fugge,
ed un’anima sola, indifesa, ma forte.
Il desiderio solo canta al liuto;
nell’aperto sospiro, fra le ortiche
s’acquieti il menestrello, ozioso e muto
anche lui – sia l’amore alto e lontano:
tradisce il ramo più alto quel frutto
che ogni passante può trovare a terra.

 

L’amore non è cieco (Crocetti, 2001), trad. it. S. Raffo

Jacopo Ramonda

#80

Mi chiamo Andrea N., e su Facebook ho più di settanta omonimi. Alcuni di essi abitano in altre nazioni, in paesi lontani, ma mi hanno inviato una richiesta d’amicizia per questa unica caratteristica che sappiamo di avere in comune. Il mio nome mi pare sempre più un dettaglio insignificante della mia persona; un elemento che, invece di identificarmi, contribuendo a distinguermi dagli altri, amplifica il senso di omologazione che provo.

 

Omonimia (Interlinea, 2018)

Nina Cassian


Se tu potessi vivere
le ore del tè, del caffè,
il tintinnio indolente delle tazze,
se potessi concepire le soavi ore ramate
nel pomeriggio di una vecchia famiglia di un secolo vecchio
che si è crogiolato in una memoria romantica,
se potessi non spaventarti quando
nella tazza colma di tè vedi il tuo volto
dalla fiamma dell’inferno intensamente illuminato.

 

C’è modo e modo di sparire. Poesie 1945-2007 (Adelphi, 2013), trad. it. A. N. Bernacchia

Jaime Saenz


Sono separato da me stesso dalla distanza in cui mi trovo;
il morto è separato dalla morte da una grande distanza.
Penso di percorrere questa distanza riposando da qualche parte.
Di spalle alla dimora del desiderio,
senza muovermi dal mio posto – di fronte alla porta chiusa,
con una luce d’inverno al mio fianco.

Percorrere questa distanza (Crocetti, 2013), a cura di G. Pizzo

Antonella Anedda


Mi spingo oltre il dolore
dove nessuno sospetta che si soffra
in una zona di pelle mai colpita
cupa come l’avambraccio
o molata dall’osso come il gomito.
Striscio piano con l’anima coperta da scaglie rosso-grigie
per sostenere i rovi e lasciare a terra
il sangue minimo. Un passo – sono paziente –
e il corpo ha imparato a frusciare dentro l’erba.

Da molto lontano – da un’alba di ottobre
da un oggetto mosso nella sabbia del lago
viene ciò che la pena contempla: un paesaggio
dove non si può dormire.
Era una lunga immagine
il mormorio di un brivido.
Troppo tardi si compone l’astuzia di ogni sera
fingere che il mio braccio sia il tuo
che stringa la mia mano
di nuovo, senza pace.

 

Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999)

Foto di Dino Ignani