Le parole oggi mi danzavano intorno
come farfalle; parole semplici acute:
sasso, terra, cielo, il mio soffrire
e quello di tutti. Ma anche oggi è finito:
un altro giorno. E domani pure
sarà un altro giorno: almeno per te,
mondo, che ruoti senza memoria.
Molte stagioni (Mondadori, 1962)
Il tema di questa lirica è eterno e continuo, da sempre oggetto di riflessioni, di argomentazioni, di ripiegamenti e motivo di rassegnazione o rivalsa, di eterodossa non accettazione e di rivoluzionaria infrazione, nell’arte e nella vita da parte di quanti abbiano ravvisato l’incontrovertibile crudeltà dello scorrere dei giorni e delle età.
Il soggetto è quello del mondo immemore, inconsapevolmente traslato nello spazio che attraversa con rituale, geometrica pertinenza algoritmica. Il centro prospettico è relativo all’infinitesimale lasso che è già ieri, al tempo edace, alla concretezza delle parole e al vacuo, immemore uso delle stesse. Sembrerebbe echeggiare il magrittiano “disattendimento”, “tradimento della parola”, del gesto, dell’azione, della vita tradotta su linee parallele e ferrate di scorrimento dal nulla e forse verso il nulla. E’ un commiato, un rimandare al giorno che verrà, rivolto forse solo a quello stesso mondo accoccolato intorno al suo ruotare privo di senso vero e di meta se non quelli ciclici della ripetizione.