Stefano Bortolussi


Pallas

Salivamo a bordo, noi piccoli fratelli
con aggiunta di amici e bambinaia,
non senza prima rivolgere preghiera alla déesse
di viaggi e vacanze, ferro da stiro
in grado di lisciare ogni accidente di percorso
a eccezione delle nausee che ti forzavano
alla sosta ripetuta sul ciglio del tornante,
frustrando la tua voglia di arrivo e gin rosa:
per noi le sospensioni idropneumatiche
erano solo forma basculante di tortura,
peggio che cinese, e non c’era Ginko o Fantomas
che tenesse testa alla nausea
ritmata di conati, ai lamenti allora ignari
delle meraviglie delle quattro sfere di acciaio,
una per ruota, per metà piene d’olio e per l’altra
di azoto: era un incrocio troppo complicato
di viscere e meccaniche. Solo da fermo,
all’arrivo, il dirigibile perdeva finalmente quota,
il Nautilus ridiscendeva sotto il filo di un’acqua invisibile,
i passeggeri emergevano pallidi dal ventre dello squalo
e insieme ai due occupanti del sedile anteriore
la meravigliosa bestia sospirava il suo arrivo.

 

Inedito da Paternalia (di prossima pubblicazione)

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