
Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Ossi di seppia (Mondadori, 1976)
giocando con Eugenio (col grande Eugenio)
Può essere che fosse nebbia,
una grigia densa spenta luce,
i miei passi incerti in tanto vuoto.
Forse una radice, un sasso, un niente
e l’inciampo si fa caduta
e colpo e dolore intenso,
ma altrettanto intensa luce
come un sole inconosciuto.
Facce attorno, ignote,
ma non informe folla, volti,
sguardi simili, voci consonanti.
In breve svanì lo stordimento.
Negli occhi ancora nebbia,
null’altro che il grigiore,
il rumore dei miei passi,
il mio ansimare, nessuno
assieme a me perduto
in questa nebbia fitta
che mi è tanto cara.
L’assenza, il vuoto, la negazione e l’improvviso, repentino riannodare le sensazioni, la visione e il percepire tale visione come sempre è stato, come sempre è accaduto. L’assenza sembra essere anche e soprattutto emotiva, come se gli uomini che non si voltano fossero gli unici abitatori di strade, edifici, case che scompaiono come scomparsa è l’attitudine all’altro, come esaurita è la curiosità del conoscere l’altro uomo, l’altra donna, l’altro individuo. Una visione moderna e desolante, un rappreso atto di coscienza e conoscenza del mondo.