Invano ho lottato
Per convincere il mio cuore a piegarsi;
Invano gli ho detto:
«Ci sono poeti più grandi di te».
La sua risposta, come vento e suono di liuto
Come vago lamento nella notte
Che non mi dà riposo, dice sempre:
«Un canto, un canto».
I loro echi ondulano uno nell’altro nel tramonto
Cercando sempre un canto.
Ah, io sono consumato dal lavoro
E il vagare per infinite strade ha cerchiato di viola,
Ha riempito di polvere i miei occhi.
Su di me c’è ancora un tremore nel tramonto,
E piccoli elfi rossi di parole gridano: «Un canto»,
Piccoli grigi elfi di parole gridano per un canto,
Piccole foglie gialle di parole gridano: «Un canto»,
Piccole foglie verdi di parole gridano per un canto.
Le parole sono foglie, vecchie foglie gialle già di primavera,
Portate qua e là dal vento vanno cercando un canto.
A lume spento (All’insegna del pesce d’oro, 1958), a cura di Vanni Scheiwiller
Ezra Pound si rivolge al suo cuore e a se stesso nel tentativo, destinato a fallire, di distogliere entrambi dalla creazione poetica sulla scorta della presunta consapevolezza circa l’esistenza di poeti più grandi. Ma il forzoso tentativo di modificare razionalmente la propria natura non può avere coronamento, la voce interiore richiama con dolcezza insistente e che non dispera. L’insopprimibile imperativo al canto, come una voce insistente, richiama al lavoro, circoscrive lo spazio d’azione, l’ambito, unico ambito possibile, il territorio, unico territorio possibile, quello della creazione poetica. Le voci si uniscono al tramonto, all’unisono, intrecciate. E come elfi, piccoli attanti, continuano le esortazioni, e non cedono e non cessano.
La seconda parte della lirica è un crescendo, le parole sono foglie sommosse dal vento. Scompaginate, disordinate, scomposte e ricomposte secondo nuovi ordini, assemblaggi inediti, schieramenti combinatori, sovrapposizioni. Cercano un canto, il vero canto.
Profluisce l’anafora impostata sull’estetica della piccolezza.
Questa composizione è struggente e imperioso monito a chi legge, e quindi ricrea il verso composto dal poeta, e a chi scrive affinché il canto sia autentico e insopprimibile, vero, della verità dei pensieri acuti, delle voci assolute e verticali, della vita soggiogata dall’arte.
Nella poesia di quelli che si potrebbero definire “classici contemporanei” , come Pound,non è traccia di autocompiacimento, di esile teorema intorno a una minima intuizione, nessun atteggiarsi per assumere cappello e ruolo, nessun esercizio formale compiaciuto, nessun intento di creare cortocircuiti da mezza scintilla, tra vita e arte presunta.
Le generazioni future continueranno a leggere poeti come Ezra Pound e dimenticheranno tanti altri impastatori maldestri di parole.
Lode d’Isolda In vano ho tentato d’insegnare al mio cuore a piegarsi; in vano gli ho detto: “Ci sono stati poeti più grandi di te”. Ma la sua risposta giunge, come suono di venti e di liuti, come un vago pianto che copre la notte e non mi lascia tregua, ripetendo sempre “Un canto, un canto”. I loro echi si accavallano nel crepuscolo cercando sempre un canto. Ecco, sono stremato dal travaglio e vagare per molti sentieri ha reso i miei occhi due cerchi rosso-cupo invasi di polvere. Eppure mi sovrasta un tremito nel tramonto, e piccoli elfi-parole rossi gridano: “Un canto”, piccoli elfi-parole grigi implorano un canto. piccole foglie-parole brune gridano: “Un canto”. piccole foglie-parole verdi implorano un canto. Parole come foglie, vecchie foglie scure nell’aria primaverile che le soffia chissà dove in cerca di un canto. Parole bianche come fiocchi di neve, ma fredde, parole di muschio, parole a fior di labbra, parole come placide correnti. In vano ho tentato d’insegnare all’anima a piegarsi, in vano l’ho implorata: “Ci sono state anime più grandi di te”. Nel mattino dei miei anni venne qui una donna chiamandomi come luce lunare come luna che chiama le maree, “Canto, un canto”. Donde le feci un canto e lei si levò da me come la luna si leva dal mare, ma sempre di nuovo giungevano foglie-parole, piccoli bruni elfi-parole perché quella di cui cantai si è partita da me”. Ma la mia anima mandò una donna, una donna di un popolo mirabile, una donna come fuoco sopra le pinete a chiedere : “Canto, un canto”. Come la fiamma grida nella linfa. Il mio canto s’infiammò per lei e lei si levò da me, come la fiamma si leva dalla brace per penetrare in nuova foresta e le parole restarono con me sempre a gridare; “Canto, un canto”. Ed io: “Io non ho canti”, finché l’anima mia mandò una donna come il sole: Oh sì, come il sole chiama verso il seme, come la primavera sopra il ramo così è lei che viene, madre dei canti lei che tiene nel fondo degli occhi parole mirabili parole, piccoli elfi-parole che chiamano sempre dentro di me, “Canto, un canto”. In vano ho tentato con l’anima mia d’insegnare all’anima a piegarsi. Quale anima si piega se nel suo cuore ci sei tu?
Pound è un Dante, uno Shakespeare, nulla vale più per un poeta della consapevolezza del ‘fare’, e, tuttavia, quel cuore di cui parla non è il più il suo ma il cuore stesso della Poesia. Quanti poeti oggi tengono il timone e guardano all’Orsa come perfetto marinaio?
Il canto è in quest’unisono della lotta vana, perfetto ‘tutti giù per terra’ del fare poetico.
. . . grazie …