Luoghi deserti
Fitte cadere notte e neve, oh, fitte
In un campo ho guardato passando oltre
E il suolo quasi uniforme sotto la coltre
Più non mostra che fili d’erba e stoppie.
I boschi intorno sono padroni del campo.
Ogni animale soffoca nella tana.
Io non conto, perché la mia mente è lontana:
La solitudine in sé inavvertito mi chiude.
E, solitaria com’è, la solitudine
Ancor più solitaria, anzi che meno, sarà
– Un candore più vacuo di neve ottenebrata
Senza espressione, senza nulla da esprimere.
Non mi fanno paura coi loro spazi aperti
E vuoti fra le stelle dove non è stirpe umana,
Quando io posso da me così vicino a casa
Far paura a me stesso con i miei luoghi deserti.
Conoscenza della notte e altre poesie (Mondadori, 1988), trad. it. Giovanni Giudici
Ha, il Nostro, una tranquilla e, direi, invidiabile sicurezza per essere candidamente accompagnato lungo il percorso della propria vita da codesta specialissima compagna qual è la solitudine. Nessun tremore e, quanto al timore, ecco che diviene guscio tollerabile e tollerante come ogni possibile compagno/compagna, amico/amica, davvero fraterni. Un modo originale ed appagante, a quanto pare, per dare un soggettivo senso alla vita.
“Luoghi deserti” ovvero il canto e l’esaltazione della solitudine,quella relativa e topografica, quella “dove non è stirpe umana” e quella assoluta degli spazi interiori del poeta. I termini della condizione ravvisabile come solitudine nella natura si succedono in qualità di attanti che prendono posto e incasellano le sequenze narrative: la neve costituisce una coltre, le stoppie, il bosco prende il sopravvento rispetto alla distesa del campo.
Lo stato dell’assopimento, dell’allontanamento, del silenzio, dell’apparente assenza dell’azione vegetativa sono comunque legati al corso delle stagioni, sono parte ontologica delle cose. Un luogo altro, una nuova stagione interrompono di conseguenza la quiete letargica della natura.
La seconda forma di isolamento è invece quella alla quale non si sfugge. Meno terrifica è l’assenza di vita e di uomo, ma quella che alligna, ontologica e propria, presente in cute, nello spirito e nel recesso più intimo è totalizzante e ultimativa.
L’uomo solo è chiuso e alienato dal contesto nel quale invece dovrebbe operare, non ha parole, non ha verso, non può se non assecondare questa condizione. Robert Frost sembra volerci assuefare a questa condizione, a questo stato pare non voglia ribellarsi o sottrarsi. La pratica della poesia forse è il solo mezzo per comprendere ed estrinsecare la certezza del dubbio e la consapevolezza della propria natura.
Grazie per la scelta di questo testo poetico.
Mah!