Guido Gozzano


Ma un bel romanzo che non fu vissuto
da me, ch’io vidi vivere da quello
che mi seguì, dal mio fratello muto.

Io piansi e risi per quel mio fratello
che pianse e rise, e fu come lo spetro
ideale di me, giovine e bello.

A ciascun passo mi rivolsi indietro,
curioso di lui, con occhi fissi
spiando il suo pensiero, or gaio or tetro.

Egli pensò le cose ch’io ridissi,
confortò la mia pena in sé romita,
e visse quella vita che non vissi.

Egli ama e vive la sua dolce vita;
non io che, solo nei miei sogni d’arte,
narrai la bella favola compita.

Non vissi. Muto sulle mute carte
ritrassi lui, meravigliando spesso.
Non vivo. Solo, gelido, in disparte,

sorrido e guardo vivere me stesso.

Tutte le poesie (Mondadori, 2016)

2 pensieri su “Guido Gozzano

  1. Mi ricorda Heine, nel suo poemetto “Germania, una fiaba d’inverno”.

    Seguiva sempre di Paganini l’orma
    uno spiritus familiaris,
    a volte come cane, a volte in forma
    del defunto Georg Harrys.
    Vedeva un uomo rosso Napoleone
    prima d’ogni evento importante.
    Aveva anche Socrate il suo demone,
    non era un prodotto della mente.
    Io stesso, sedendo alla scrivania,
    di notte ho percepito sovente
    un ospite in maschera alla mia
    schiena con un aspetto inquietante.
    Sotto il manto teneva celato
    un oggetto dallo strano bagliore,
    e mi parve, quando si fu svelato,
    si trattasse di un boia con la scure.
    Lui sembrava di bassa statura,
    gli occhi erano come due stelle;
    non disturbava mai la mia scrittura,
    era distante e di mosse tranquille.
    Da anni non lo rivedevo ormai,
    questo compagno particolare,
    ecco che a un tratto lo ritrovai
    a Colonia nel silenzio lunare.
    Vagavo pensoso lungo la via
    quando mi accorsi che lui mi scortava
    come se fosse stato l’ombra mia
    e quando mi fermavo, si fermava.
    Restava fermo, come se attendesse
    qualcosa, e ripresa l’andatura,
    lui mi seguiva. In tal modo si giunse
    sulla Piazza del Duomo addirittura.
    Divenni insofferente, mi voltai
    e dissi: “Ora rispondi alla domanda,
    perché mi segui e dove vado, vai,
    in mezzo a questa notturna landa?
    Io ti ritrovo sempre nell’istante
    in cui le sensazioni germogliano
    nel mio petto e dalla mia mente
    i lampi dell’ingegno si scagliano.
    Tu mi guardi così fisso e ostinato
    Rispondi: cos’è che nascondi
    qui sotto il manto, che brilla segreto?
    Chi sei tu e da me cosa pretendi?”
    Ma lui con tono asciutto rispose,
    addirittura anche un po’ flemmatico:
    “Ti prego di non prendere pose
    da esorcista né di essere enfatico!
    Ché non sono un fantasma del passato,
    né uno spettro quale che sia,
    e alla retorica non sono affezionato
    né tanto meno alla filosofia.
    La mia natura è di agir concretamente,
    e sono sempre tranquillo e taccio,
    però sappi che, quel che tu hai in mente,
    io lo concretizzo, io lo faccio.
    E anche se gli anni passano volando,
    non ho tregua finché non trasferisco
    in realtà ciò che stavi pensando;
    sei tu che pensi, e io? Io agisco.
    Tu sei il Giudice, io sono l’Usciere,
    eseguo la sentenza pronunciata
    con l’obbedienza di un servitore,
    che sia giusta o che sia sbagliata.
    Dinanzi al Console portavano l’ascia
    bipenne a Roma negli antichi tempi.
    Anche tu hai il tuo littore, ma l’ascia
    ti segue sempre, ogni passo che compi.
    Sono io il tuo littore e cammino
    con la nuda scure, continuamente,
    seguendoti dovunque vai – Io sono
    l’atto, il parto della tua mente.

    H. Heine, Germania, una fiaba d’inverno, Cap. VI (Trad. N. Muzzi)

  2. Gozzano miscela con arguta sapienza, con declinante simbolismo, con l’intento di insinuare, ancora da una prospettiva evocativa e secondo un adagio lirico, la perdita dell’unità spirituale e ontologica dell’uomo.
    Lo sdoppiamento e la depersonalizzazione consentono al poeta di guardare se stesso, con il distacco e la terzietà di chi razionalmente quantifica il peso della vita non vissuta, delle parole non pronunciate, degli atti non compiuti. E quell’assenza, quell’atto ablatorio operato dalla negazione subita diventano ragione di struggimento, rassegnata visione del non essere. Forse solo attraverso l’arte si può reificare “la bella favola compita”, forse solo attraverso la mediazione creativa si può giungere a una forma di riscatto, di viatico, di redenzione.
    Lo sdoppiamento si concretizza anche attraverso l’arte stessa, attraverso la creazione poetica, vergando le mute carte sulle quali l’autore ha lasciato la sua eredità morale dell’aver narrato la storia del se stesso solo immaginato, vagheggiato, concepito e mai portano al punto di manifestarsi pienamente.
    La poesia di Gozzano, simbolista e intima, intrisa di decadentismo e lirica, prelude tuttavia agli stessi processi identificativi della crisi dell’uomo evidenziati anche in arte dalla stagione post-impressionista e pre-espressionista fino a giungere alle avanguardie storiche, secondo lo spostamento del raggio di indagine dall’oggettività della visione al naturalismo soggettivo, al definitivo scardinamento di qualsiasi forma naturalistica.

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