non chiedermi, caro, la parola,
non dirla tu, non mi squadrare
come pollicino, fammi andare
per questo bosco scuro,
per il sentiero di quello che io sento.
tu non mentire, io non mento:
le parole sono molliche,
e ombre grandi di aquiloni,
sono il sole che abbaglia sui balconi,
e draghi che diventano formiche
le parole, la testa e il suo girare
tu buttale alle ortiche
come alfredino, fammi calare
nel fosso scuro: l’ombelico,
tu fammelo adorare,
così i baci, i nostri cedimenti,
il collo, le mani, gli occhi e i denti
sprofondami le unghie nella schiena:
la lingua è una catena
di suoni e di saliva
è bava stremata di lumaca,
tracciato seminale verso casa,
guscio, uovo, mondo, spirale,
ricordo dell’abbraccio originale.
Inedito di Francesca Genti
Di questi tempi, l’uso delle rime mi sorprende. Qualcuno le considera fuori moda, io le trovo estremamente funzionali alla musicalità e per la memoria.
il povero Alfredino lasciamo stare, soprattutto quando non c’entra.
Testo parecchio brutto, più additivo che poetico, e pieno di un irritante autocompiacimento. Il riferimento alla storia del povero Alfredino è, inoltre, proprio di cattivo gusto. Ha ragione Butor quando dice che da 10 o 20 anni in letteratura non accade quasi nulla, e questo perché si è trasferito il frastuono delirante dei nuovi mezzi di comunicazione alla scrittura.