Federica D’Amato


Primavera

Come se oggi non fosse
anche l’autunno o la brina
fresca di collana cascata dagli inverni,
come se non entrasse oggi
anche in noi di noi ogni momento
di quella nostra ampiezza, fine
o inizio, gli incontri dell’estate,
nome bruciante strada
che porti fino alla collina se
tu sei oggi il mite sfogliarsi
d’ogni cosa, il puppare miele
di cristo il suo riposo nel lino:

non declinare,
non andartene
se puoi
dal lento nascere
di questo equinozio.

 

A imitazione dell’acqua (Nottetempo, 2017)

Osama Esber


Nella terra della Rivelazione

Dante,
Ispiratore, tu illumini le mie parole sulle strade dell’inferno.

Leggo il tuo poema epico
portando sulle spalle il peso di un altro inferno,
in una nazione dove la Rivelazione Divina sceglie
di comparire in proiettili e lame.

Dante,
Il mio inferno è dentro di me
E fa esplodere la lingua del qui ed ora,
Le fiamme si alzano illuminando le strade dell’esilio.

Dante,
Non vedo ora animali nella foresta,
solo bambole imbottite di idee,
idee che svaniscono come vapore.

Dante,
Ho messo da un lato il tuo libro
E nel suo messaggio per me io viaggio
Sulle strade di un altro inferno.

Da un inferno dove scorrono cinque fiumi,
sono venuto.
Ogni fiume con la propria storia da raccontare:
Il primo sgorga da ferite invisibili.
Il secondo sgorga da dolori
E bagna le guance della terra come lacrime.
Il terzo emana dalle urla della folla,
frantumando le mura di città indifferenti.
Il quarto viene da preghiere disperate,
bussando, invano, alle porte del cielo.
Il quinto è un fiume di parole morte
nelle cui acque i poeti vedono dissolversi i propri volti.

Sotto tetti che crollano
Dai loro detriti si alzano nubi nere,
Estendendo il lutto a un cielo,
Fra improvvisi bagliori,
Da cui s’irradiano luci che illuminano le strade per i funerali,
su un terreno macchiato di sangue che colora le acque
il mio inferno si trova lì.

Non è una storia, né metafore, neppure fantasie
Che gesticolano nell’oscurità dell’immaginazione.
Non ho bisogno di una guida.
Non è un mondo separato
Come nella lingua del Corano o della Bibbia.
Si annida nelle celle di città e nelle loro anime sconfitte.
È:
Nella strage dei bambini
Nei lividi dei corpi
In preghiere rosse che splendono intorno alle bare
Nei petti di giovani uomini che pendono dai soffitti di stanze
Con buchi di proiettili

Nella più antica città abitata del mondo
Sulle più antiche coste,
Inferno getta i suoi semi:
Crescono alberi di fuoco
Piovono nubi di fuoco
Scorrono fiumi di acido
Animali di fuoco vagano in un bosco in fiamme.

Qui,
Nella città dalle spalle larghe,
La città del poeta che ha visitato l’inferno
E che da lì ha fatto ritorno molte volte,
La città di una mucca che ha causato un inferno
Non possiamo dormire
Perché l’inferno apre le sue porte nei nostri sogni
Oscilla nei lampadari dell’insonnia
Brilla nelle luci quando guardiamo da finestre,
Nel sole, nella luna e nelle stelle.
Non perché è tutto comprende ed è passaggio
Ma perché brucia così nei piccoli dettagli
come nei grandi,
Perché è l’inferno che ci caccia
Che ha fatto la nostra immaginazione e le nostre idee,
Che ha preso dimora nei nostri occhi.
E nella profondità delle nostre anime
I suoi fiumi ruggiscono.

Lo sento crepitare
Nei colori esiliati della pelle
Nella mano che mendica
Negli occhi abbassati
Negli sguardi distratti
Nei gemiti dei malati dietro i muri
Nei sogni abortiti di letti mobili
Nei cuori che pulsano nella solitudine
I loro battiti campane risonanti
Appese nella cupola della vacuità.
In città che non vedono nulla nei loro specchi
Se non il loro paradiso momentaneo.

Senza sacche o vestiti
Ce ne andiamo.
Andiamo dall’auto dentro la tomba
O dentro la tenda del confine,
La barca della fuga verso altre spiagge
Che avevamo rifiutato e nuotiamo perdendo la direzione.
Abbiamo ingoiato l’esca,
Strappati dalla nostra vita monotona
E gettati, senza desiderio, nel cesto
Dell’esilio.

O farsa celeste,
Farsa degli odi,
Dove l’inferno è fabbricato
Il paradiso è fabbricato
Dove l’inferno è una prigione
Il paradiso è una prigione
E le parole perdono il loro gusto
E i ritmi sono persi nel
Nostro sangue.

Il mio inferno si biforca
Numerose sono le sue strade e le città
Sparsi i villaggi
Da quando ho preso coscienza
Sono stato carbonizzato dal suo fuoco
Sono stato fatto risorgere più di una volta con una nuova pelle
Ho visto l’occhio sadico di Dio
Ho visto i miei amici sulle sue braci
Con le loro poesie che grondavano sudore
Un fuoco che illumina le strade degli inizi
Dove i passi continuano a muoversi senza mai arrivare
E il corpo resta felice nonostante la disperazione.
Ed eccomi per le sue vie: incapace di
Raccogliere i segnali della salvezza,
Perchè sotto la potenza del raggio della realtà
Abita il nostro paradiso fugace.

Oh inferno
Nel tuo nome annuncio la mia storia
Con il tuo lessico
Faccio una poesia per il futuro
Una collana di parole che
Pianta la speranza
Io appendo al collo del tempo.

 

© Traduzione in italiano di Franco Nasi, revisione di Amarji

 

*

 

 

في أرض الوَحي

أسامة إسبر

دانتي
تُضيء كلماتي مُلهماً ورائداً.

دانتي،
قرأتُ كتابكَ حاملاً على كتفيَّ أعباءَ جحيمٍ آخر
في بلادٍ اختارَ فيها الوَحْيُ
أن يتجسّدَ في رصاصٍ وأنصال.

دانتي،
جحيمي في داخلي
يُفَجِّر لغةَ الآن وهنا،
ويعلو اللهبُ كي يضيءَ أفقَ العذاب.

دانتي،
لا أرى حيواناتٍ في الغابة الآن.
أرى دُمى محشوة بالأفكار
وأفكاراً متلاشيةً كبخار الآلات.

دانتي،
أضعُ كتابَك جانباً
وأسافرُ في رسالتهِ إليَّ
على طرقات جحيم آخر.

أجيءُ من جحيمٍ تجري فيه خمسةُ أنهار
لكلِّ نهر حكاية:
الأوّلُ ينبع من جراحٍ غير مرئية.
الثاني ينبعُ من الأحزان،
ويجري على خدودِ الأرض كالدموع.
يتبجّسُ الثالث من صرخاتِ حشودٍ
تقرعُ جدرانَ مدنٍ لامبالية.
يخرجُ الرابع من صلوات يائسةٍ
عبثاً تقرعُ أبوابَ السماء.
الخامس نَهْرُ كلماتٍ ميتة
يتمرأى في مائه الشعراء.

تَحْتَ سَقْفٍ ينهارُ
ترتفعُ منه غيومٌ سوداء
تُوسِّع سماءً للنَدْب،
في لهبٍ مفاجئٍ،
تنبثقُ منه أضواءٌ
تُشكّل شَمسْاً
تُضيءُ طُرقَ الجنازات،
فوق ترابٍ يصطبغُ بدمٍ
يُلوِّن المياه
يَتوضَّع جحيمي.

ليس قصّةً، أو استعارات،
أو صوراً متخيّلة
تُومئ في عزلة الخيال.
ليس عالماً آخر منفصلاً
روايةَ إنجيلٍ أو قرآن،
جحيمي يُعشّش في مسامِّ المدن
وأرواحها المهزومة.
أراه:
في أشلاء الأطفال
في كدمات الجثث
في صلواتٍ حمراءَ
تتوهّجُ حول التوابيت،
في صدور شبّان
يتدلّون من سقوف الغرف
مُثقّبين بالرصاص.

في أقدم مدينةٍ مَأْهولةٍ في العالم
على أقدمِ شطآن
ينثرُ الجحيم بذاره
فتنمو أشجارٌ من لهب
تُمطرُ سحبٌ من لهب
تتدفّق أنهارٌ من الأحْماض
وتتجوّل حيواناتٌ من لهب
في غابة محترقة.

هنا،
في مدينةِ الأكتاف الكبيرة،
مدينةِ الشاعر الذي زارَ الجحيم
وعادَ منه مرات كثيرة،
مدينةِ البقرةِ التي صَنَعتْ جحيماً،
لا نستطيع أن ننام
ذلك أنَّ الجحيم يفتحُ بوّاباته في أحلامنا،
يتدلّى في ثريات اليقظة،
يلمعُ في الأضواء حين ننظرُ من النوافذ،
في الشَمْس والقمر والنجوم،
يحرقُ في التفاصيل الصغيرة،
كما يحرقُ في التفاصيل الكبيرة،
صنعَ أخيلتنا وأفكارنل
سكن أعيننا.
وفي أرواحنا
تهدر أنهاره.

أراهُ:
في لون البشرة المنفيِّ
في اليد التي تتسوّلُ
في العين المُنَكَّسة
في الملامح الذّاهلة
في صرخات المرضى خَلْف الجدران،
في الأحلام المُجْهَضَة للأسرّة المُتنقّلة،
في مدنٍ لا ترى من نفسها في مراياها
سوى فراديسها اللحظويّة.

وها نحن
نرحلُ بلا حقائب أو ثياب،
نترجّلُ من السيارة إلى القبر،
أو خيمةِ الحدود،
ينقلبُ بنا قاربُ الهرب
إلى شواطئ أخرى،
ونسبحُ فاقدين للاتجاه.
نبتلع الطَّعْم
نُرْفَعُ من حياتنا الرتيبة
ويُقذف بنا،
دون إرادة،
في سلّة المنفى.

أيّتها المَهْزلة الإلهية
يا مهزلة الأحقاد
حيث الجحيم مُمتلكٌ
الفردوس ممتلكٌ
حيث الجحيم سجنٌ
الفردوس سجنٌ
الكلماتُ تفقد طعْمها
وتضيع الإيقاعات في الدم.

جحيمي مُتَشعِّبٌ
منذ أن وَعيْتُ على الدنيا
كَوَتْني ناره وتَفَحَّمْتُ في أرجائه.
وُلدْتُ أكثر من مرة
بعد أن صرتُ رماداً واحترقتُ من جديد.
رأيتُ أصدقائي يتقلّبون على جماره
والعرق يتصبّبُ من قصائدهم.
جحيمي في داخلي يستعرُ
ناراً تضيء طرق البدايات
وتظلُّ الخطى سائرة دون أن تصل
ويظلُّ الجسد سعيداً رغم شقائه.
وها أنذا على طرقاته غير قادر
على التقاط إشارات الخلاص
ففي سطوة شعاع الواقع
يسكنُ فردوسنا العابر.

باسمكَ أيّها الجحيم
أعلنُ حكايتي،
بمفرداتك
أصنعُ قصيدةً للمستقبل،
قلادةً من كلماتٍ
تزرعُ الأمل
أُعلِّقها على عنقِ الوقت.

Ágota Kristóf

Vivere

Nascere
Piangere succhiare bere mangiare dormire aver paura
Amare
Giocare camminare parlare andare avanti ridere
Amare
Imparare scrivere leggere contare
Battersi mentire rubare uccidere
Amare
Pentirsi odiare fuggire ritornare
Danzare cantare sperare
Amare
Alzarsi andare a letto lavorare produrre
Innaffiare piantare mietere cucinare lavare
Stirare pulire partorire
Amare
Allevare educare curare punire baciare
Perdonare guarire angosciarsi aspettare
Amare
Lasciarsi soffrire viaggiare dimenticare
Raggrinzirsi svuotarsi affaticarsi
Morire.

 

Chiodi (Casagrande, 2018), traduzione di Fabio Pusterla, Vera Gheno

Giancarlo Majorino


davvero bell chiaro troppo
di non so quanto
e soltanto chi sta sotto
potrà comprendere rivivere
sia Gesù sia Marx l’han detto

e poesie non notizie (dopo, dopo)
nonché’l cervello di uno dei ceti medi
come qui può cominciare a scrivere
chi sta sopra non può dirigere niente
chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile

ma poi quando un uomo grida aiuto
un uomo una donna una vecchia un bimbo
è come se il mondo si fermasse
case mute zitte finestre chiuse
tutto ciò parla o o urla o tace sale s’agita

 

La gioia di vivere (Mondadori, 2018)

Franco Arminio


Passo le mie mani
sul tuo corpo
come un archeologo.
L’amore è leggere il sacro
seppellito nei corpi,
è quella cosa che si sgretola,
fa cadere le vernici,
rivela il fondo d’oro,
l’archivio di luce
da cui veniamo.

 

Resteranno i canti (Bompiani, 2018)

© Foto di Mario Dondero

Nicola Grato


non voglio rifugiarmi nella storia
paesana, nel ripiego, nel risvolto
di copertina, nell’eco del tempo
da cartolina d’augurio e saluto;
ricerco nella fatica, nel dolore
che viene dall’assenza di parole,
o dall’uso smodato, furbo, accattone
di talune – e sono coltellate,
tiri gaglioffi, bandiere al vento del niente
imbecille e senza scopo.
Lo sai, saranno crociere a Marrakech,
voli intercontinentali a Dubai
e disprezzo per il bene del giorno,
e per la vita tutta – col rancore
del borghese sazio, della dama
di compagnia dietro ai vetri sporchi
dei suoi desideri.
Poi il nuovo giorno, il sole che scandaglia
ogni tegola, ogni strada, le vigne
addormentate, le palizzate
di legno e metallo; poi le persone
usciranno di casa, parleranno –
chi venderà verdura, chi pesce
salato, e la lotta di due gatti
e il sorriso che t’immagini del grano
nei campi ancora scuri.

 

Inventario per il macellaio (Interno Poesia Editore, 2018)

© Foto di Salvina Chetta

Kathleen Jamie


Glacial

A thousand-foot slog, then a cairn of old stones —
hand-shifted labour,
and much the same river, shining
way below
as the Romans came, saw,
and soon thought the better of.

Too many mountains, too many
wanchancy tribes
whose habits we wouldn’t much care for
(but could probably match),
too much grim north, too much faraway snow.

Let’s bide here a moment, catching our breath
and inhaling the sweet scent of whatever
whin-bush is flowering today

and see for miles, all the way hence
to the lynx’s return, the re-established wolf’s.

*

Glaciale

Una scarpinata di trecento metri, poi un cumulo di vecchie pietre –
un lavoro manuale,
e sempre lo stesso fiume, che scintillava
laggiù
quando i Romani vennero, videro,
e ben presto ci ripensarono.

Troppe montagne, troppe
tribù minacciose
le cui abitudini non ci garbano granché
(ma che potremmo forse uguagliare)
troppo grigiore nordico, troppa neve là in lontananza.

Su, facciamo una sosta qui, riprendiamo fiato
e inaliamo il dolce profumo di quella ginestra
che è in fiore oggi

guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora
e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo.

 

La compagnia più bella (Medusa Editore, 2018), cura e traduzione di Giorgia Sensi

Titolo originale: The Bonniest Companie, Kathleen Jamie, Picador, 2015

Edward Dorn


Se mai dovesse accadere

E siamo tutti lì insieme
il tempo ondeggerà al modo dei salici
e sarà veramente l’addio, sì,

ridendo a ciò che è dimenticato
e parlando di ciò che è nuovo
ammirando le rose che hai portato.
Così triste.

Non sapevi di essere alla fine
pensavi che la tua luminosa pera
la terra, sì,

fosse un’altra avventura in cui sei stato trattenuto
e guardato fissamente
dopo aver dormito
in cui sei stato tenuto in serbo
come una noce da uno scoiattolo, e mezzo
dimenticato,
ce n’erano tante, tante
cadute da poco.

 

Poesia degli ultimi americani (Feltrinelli, 1995) a cura di Fernanda Pivano

Nicola Vitale


Metti questa parola solida
che sembra carne
o quella introflessa
verso sbalzi d’umore.
Metti una parola buona
per sembrare uno che canta di notte.
Metti una parola comunque
per cercare credito in un futuro
senza risultato.
Cosa si può scrivere in permanente ritardo?
Una parola corre
sul crinale che ci divide dal mondo
rovesciando nel contrario le cose.

 

Chilometri da casa (Mondadori, 2017)

© Foto di Dino Ignani

Gianni Montieri


Qualcuno ha twittato: “È morto
Chris Cornell”. In ufficio è calato
il silenzio, non che si parli molto
poi qui dentro. Resto sgomento:
i miei due colleghi non sanno nulla
dei Soundgarden. La memoria
torna indietro al tavolo da biliardo
in casa di Roberta, a Giuliano, a Daniela.
Invecchiamo così perdendo più cantanti
che capelli. Giuliano ha due figli
Roberta sta a Berlino, Daniela insegna
la sua bambina è bella. Fra sei giorni
è il mio compleanno, Cornell canta
i colleghi vanno a pranzo.

 

© Inedito da “Le cose imperfette”

© Foto di Anna Toscano