Lo vedi, è la lingua
E così ora ti senti
piovigginoso, malato, pieno di avverbi autunnali,
di sostantivi distratti, di oggetti ritrovati
e subito perduti, sgretolati, di annotazioni che scorrono
per troppe pagine al piede della vita, e non sai
come funziona il gioco del rimando. La sola
ipotesi possibile ti sembra
l’invidia dello sguardo, la sua pena. Ma quando
ti soffermi alla soglia delle voci, al momento
che l’acqua si confonde
col pettirosso, con l’albero, con la collina,
è allora che le muffe
ti fioriscono attorno agli orecchi, e con delicatezza
tremenda assopiscono i suoni. Ti credi in ascolto
dell’imminenza, ma non era questo
che ti aspettavi, non questa dispersione del dolore
per tutto il corpo. O meglio: non ancora.
Ti sarebbe piaciuto osservare con le dita,
e invece ti passano accanto i ritratti,
il ritaglio di un occhio, il profilo solenne o ridicolo
di qualche testa dai pensieri assorti.
Lo vedi, è la lingua
così cortese, ossequiante, precisa, ma in fondo
sempre più imbarazzante a pretendere tutta l’attenzione
di cui non sei capace,
e ti ritrovi impigliato in un frammento,
disperso dappertutto, un movimento estremo
quasi raccolto insieme dal no comment
che riprende ogni volta il suo racconto.
Poesie 1957-2000 (Mondadori, 2010)