Canto dell’esilio
Mentre il blackout nel cybercaffè promette una sera che non arriverà
e la parola d’ordine è rinascere,
mentre migliaia di giovani affogano cercando di raggiungere l’Europa
le madri di chi parte lanciano un canto contro l’esilio.
La canzone uscita dall’estate di Dakar,
nata a pochi chilometri dai palazzi dei politici.
Urlate alto.
Li avete lasciati laggiù.
E non basta il lamento, non più.
Stanotte, sono andata a parlare agli spiriti.
Mi hanno detto:
Sii la musica della nostra parola.
La parola che è domani.
Si sono spenti i riflettori dei telegiornali.
E il grande concerto è cominciato e finito.
Non hanno trovato lavoro, hanno avuto fame,
nelle banlieux di Parigi.
Il conto alla rovescia è cominciato.
Siedono a piedi nudi dove
pochi giorni prima hanno pianto,
le fronti
insanguinate,
la bellezza dura del miele dei loro occhi
grida lo slang di un sogno che unisce
generazioni.
Il fuoco clandestino dei baci e delle idee
brucia.
E’ grave quello che succede.
E il futuro?
Promesse,
che nessuno mantiene.
Abbiamo percorso colline e montagne,
deserti e città.
Per dire: non più gli occhi dei nostri figli in fondo al mare.
Non più in esilio, tacere, guardarli partire.
Quanto vale il potere delle parole
di cambiare?
Le nostre parole sono come l’alba.
Crescono e diventano giorno e dicono.
Mentre la musica va,
mentre i flash dei telefonini fotografano le spiagge,
mentre le pale dei ventilatori rotte fermano la sera nella stanza,
a guardare dal televisore i corpi che si incagliano a Tenerife o Fuerteventura.
Mai più: me ne andrò,
Mai più: morire è meglio che restare.
Mai più: i nostri figli morti.
© Inedito da Laura Fusco
Mai più me ne andrò