Cicladi
(Evocando Fernando Pessoa)
La chiarità frontale del luogo mi impone la tua presenza
Il tuo nome emerge come se qui
Il negativo che fosti di te stesso si sviluppasse
Vivesti nel rovescio
Viaggiatore incessante dell’inverso
Esente da te stesso
Vedovo di te stesso
A Lisbona scenografia della vita
Ed eri l’inquilino di una stanza affittata sopra una latteria
L’impiegato competente di una ditta commerciale
Il frequentatore ironico delicato e cortese dei caffè della Baixa
Il visionario discreto dei caffè voltati verso il Tago
(Dove ancora sul marmo dei tavolini
Cerchiamo l’impronta fredda delle tue mani
– L’impercettibile diteggiare delle tue mani) –
Squartato dalle furie del non-vissuto
A margine di te degli altri e della vita
Aggiornasti tutti i tuoi quaderni
Con meticolosa esattezza disegnasti le carte
Delle multiple navigazioni della tua assenza –
Quel che non fu né fosti è stato detto
Come isola sorta sottovento
Con scandagli sonde astrolabi bussole
Procedesti al rilevamento dell’esilio
Nascesti dopo
E qualcuno aveva consumato in sé tutta la verità
La via delle Indie era già stata scoperta
Degli dèi solo restava
L’incerto trapassare
Nel mormorio e nell’odore dei paesaggi
E avevi molti visi
Perché non essendo nessuno dicessi tutto
Viaggiavi nel rovescio nell’inverso dell’avverso
Eppure ostinata io invoco – o diviso –
L’istante che ti unisse
E celebro il tuo arrivo alle isole dove giammai venisti
Questi sono gli arcipelaghi alla deriva lungo il tuo viso
Questi sono i rapidi delfini della tua allegria
Che gli dèi non ti diedero né volesti
Questo è il paese dove la carne delle statue come pioppi trema
Attraversata dal respirare lieve della luce
Qui brilla l’azzurro-respirazione delle cose
Sulle spiagge dove c’è uno specchio voltato verso il mare
Qui l’enigma che mi interroga da sempre
È più nudo e veemente e per questo ti invoco:
“Perché furono spezzati i tuoi gesti
Chi ti cinse di muri e di abissi
Chi versò a terra i tuoi segreti”
Ti invoco come se arrivassi su questa nave
E posassi i tuoi piedi sulle isole
E la loro eccessiva prossimità ti invadesse
come un viso amato sporto su di te
Nella canicola di questo luogo chiamo te
Che mettesti in letargo la tua vita come l’animale nella stagione avversa
Che ti volesti distante come chi davanti al quadro per meglio vedere arretra
E volesti la distanza che subisti
Ti chiamo – riunisco le macerie le rovine i pezzi –
Perché il mondo è schioccato come una cava
E a terra rotolano capitelli e bracci
Colonne divise schegge
E dell’anfora resta lo spargimento di cocci
Di fronte ai quali gli dèi si fanno estranei
Però qui le dee color di grano
Ergono la lunga arpa delle loro dita
E incantano il sole azzurro dove ti invoco
Dove invoco la parola impersonale della tua assenza
Potesse l’istante della festa rompere il tuo lutto
O vedovo di te stesso
E che essere e stare coincidessero
Nell’uno delle nozze
Come se la tua nave ti aspettasse a Thassos
Come se Penelope
Nelle sue alte stanze
Fra i suoi capelli ti filasse
Come un grido puro (Crocetti, 2013), trad. it. F. Bertolazzi