Kate Clanchy

Kate Clanchy

Spell

If, at your desk, you push aside your work,
take down a book, turn to this verse
and read that I kneel here, pressing
my ear where on your chest the muscles
arch as great books part, in seagull curves,
bridging the seasounds of your heart,

and that your hands run through my hair,
draw the wayward mass to strands
as flat as scarlet silk-thread bookmarks,
and stroke my cheeks as if smoothing
back the tissue leaves from chilly,
plated pages, and pull me near

to read my eyes alone, then you shall see,
silvered and monochrome, yourself,
sitting at your desk, taking down a book,
turning to this verse, and then, my love,
you shall not know which one of us is reading
now, which writing, and which written.

*

Incantesimo

Se, al tuo scrittoio, metti da parte il lavoro,
prendi giù un libro, cerchi questi versi
e leggi che io sto lì in ginocchio, l’orecchio
contro il tuo petto dove i muscoli
si inarcano come grossi tomi che si aprono, in curve
di gabbiani, attraverso le onde sonore del tuo cuore,

e che mi passi le dita fra i capelli,
sfilando dalla massa ribelle ciocche
sottili come segnalibri di seta scarlatta,
e mi accarezzi le guance come se lisciassi
veline tra rigide illustrazioni,
e mi tiri verso di te

per leggermi solo negli occhi, vedrai,
argentato e monocromo, te stesso,
seduto al tuo scrittoio, prendere giù un libro,
cercare questi versi, e allora, amore,
non saprai chi di noi due legge
ora, chi scrive, e chi è scritto.

 

Neonato (Medusa, 2007), cura e traduzione di G. Sensi

Valerio Grutt

grutt ignani
Come lavo questi piatti
fa che siano lavati
i rancori passati di Giulia.
Se lavo il coltello togli
dalla sua mente le ferite
familiari, gli sguardi taglienti
che le affondarono nel petto.
Se lavo il bicchiere toglile
la noia bastarda delle attese
la regolarità inutile di un giorno
senza squilli e senza visite.
Se lavo la pentola purifica il cuore
che sia libero da ogni delusione.

E questa parola non resti poesia
ma spacchi il vetro
risalga all’infinito e giunga dritta
al centro dell’universo.

 

© Inedito di Valerio Grutt

© Foto di Dino Ignani

Galway Kinnell

kinnell
On the Tennis Court at Night

We step out on the green rectangle
in moonlight. The lines glow,
which for many have been the only lines
of justice. We remember
the thousand erased trajectories
of that close-contested last set –
blur of volleys, soft arcs of drop shots,
huge ingrown loops of lobs with topspin
that went running away, crosscourts recrossing
down to each sweet (and in exact proportion, bitter)
☆ in Talbert and Olds’ The Game of Doubles in Tennis.
The breeze has carried them off but we still hear
the mutters, the doublefaulter’s groans,
cries of “Deuce!” or “Love two!”,
squeak of tennis shoes, grunt of overreaching,
all dozen extant tennis quips – “Just out!”
or, “About right for you?” or, “Want to change partners?” –
and baaah of sheep translated very occasionally
into thonk of well-hit ball, among the pure
right angles and unhesitating lines
of this arena where every man grows old
pursuing that repertoire of perfect shots,
darkness already in his strokes,
even in death cramps squeezing a tennis ball
for arm strength, to the disgust of the night nurse,
and smiling; and a few hours later found dead –
the smile still in place but the ice bag
left cooling the brow now mysteriously
icing the right elbow – causing
all those bright trophies to slip permanently,
though not in fact much farther, out of reach,
all except for the thick-bottomed young man
about to doublefault in soft metal on the windowsill:
“Runner-Up Men’s Class B Consolation Doubles
St. Johnsbury Kiwanis Tennis Tournament 1969”…
Clouds come over the moon;
all the lines go out. November last year
in Lyndonville: it is getting dark,
snow starts falling, Zander Rubin wobble-twists
his worst serve out of the black woods behind him,
Tommy Glines lobs into a gust of snow,
Don Bredes smashes at where in theory the ball
could be coming down, the snow blows
and swirls about our legs, darkness flows
across a disappearing patch of green-painted asphalt
in the north country, where four souls,
half-volleying, poaching, missing, grunting,
begging mercy of their bones, hold their ground,
as winter comes on, all the winters to come.

 

*


Di sera sul campo da tennis

Usciamo sul rettangolo verde
al chiaro di luna. Luminose
le righe che per molti sono state, sole,
le righe della giustizia. Ricordiamo
le mille traiettorie cancellate
di un combattuto ultimo set –
aloni di volée, morbidi archi di palle corte,
enormi curve richiuse di pallonetti in top
che scappavano filando, tiri incrociati riincrociati
verso ogni dolce (e in proporzione esatta amara)
☆ de Il gioco in doppio nel tennis di Talbert e Olds.
Li ha portati via il vento, ma sentiamo ancora
i mugugni e, sul doppio fallo, i lamenti,
le grida di “Zero due!” o di “Parità!”,
lo stridio delle scarpe, il grugnito nell’allungo,
tutti i lazzi da tennis che ci sono – “Fuori di poco!”
o “Ti pareva buona, quella?” o “Vuoi cambiare coppie?” –
e i baaah da pecora tradotti, molto occasionalmente,
nel thonk di un gran bel colpo, fra i puri
angoli retti e le righe perentorie
di quest’arena dove ogni uomo invecchia
vagheggiando quel repertorio di colpi perfetti,
l’oscurità presente già nei gesti,
fin negli spasmi della morte stringendo una pallina –
l’infermiera di notte disgustata – per rafforzare il braccio,
sorridendo; e qualche ora più tardi essere poi trovati morti –
ancora lì il sorriso, ma la borsa del ghiaccio
che stava sulla fronte ora, misteriosamente,
a raffreddare il gomito destro – di modo che
tutti i trofei splendenti sfuggono, perpetuamente –
seppure non tanto più in là, effettivamente – fuori portata,
con l’eccezione del giovanotto dal didietro grosso prossimo
al doppio fallo, fatto in metallo, sul davanzale:
“Premio di Consolazione – Doppio Maschile – Categoria B
Torneo di Tennis – St. Johnsbury Kiwanis – 1969”…
Arrivano le nuvole, sopra la luna,
si spengono tutte le righe. A novembre, l’anno scorso
a Lyndonville: diventa scuro,
la neve prende a cadere, Zander Rubin fa roteare
il suo peggior servizio dai boschi neri alle sue spalle,
Tommy Glines fa un pallonetto in una raffica di neve,
Don Bredes pronto a schiacciare dove in teoria la palla
forse sta per cadere, soffia la neve
turbinandoci intorno alle gambe, l’oscurità che scorre
su una striscia d’asfalto dipinta in verde che scompare
nelle terre settentrionali, là dove quattro anime,
fra demi-volée e grugniti, invasioni, colpi mancati,
chiedendo pietà alle ossa tengono il campo
nell’inverno che viene, per ogni inverno che verrà.

 

© Traduzione di Simone Pagliai

Eva Laudace

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Il presentimento d’amare

Racconta bugie
anche se non servono
ci crede persino
tutte le volte
o quasi.

Inutili
viltà, lei dice,
e lo sguardo si fa severo
che lo potrei imitare
almeno quello.

Al tempo di un pioppo che cade
o mi precipita in bocca
io mi dispero e disattendo
il presentimento d’amare
l’idea puntuta di ciò che cerco.

L’amore, che ancora cerco, non dice bugie
matura al sole e non secca.
È candore
è portarsi avanti
è piuttosto sincero da dire così.

 

Tutto ciò che amo ha dentro il mare (La Vita Felice, 2014)

© Foto di Camilla Mastaglio

Milazim Krasniqi

Milazim-Krasniqi

Che cos’è la patria

Patria ombra mia
Non è facile dirle addio

Ad ogni passo che la lasci dietro
Lei si sforma come un sogno

Ma che cos’è la patria ombra mia
Che trema tanto disperata
E mi rovina l’equilibrio
Cambiandomi in plastica
Oppure solo i miraggi nebulosi
Delle estensioni illiriche
Che sono strutture attraverso la cronaca
Come gli infelici nelle rocche assediate

Delle città fatte cenere da Pal Emili
Dei castelli distrutti
Che diventano come bastoni
Ai tradimenti ideologie emorragie
Benedici il significato della patria
Ombra mia
Che si contorce molto turbata
Ma perché mi abbandoni anche tu

 

Poesie dal Kosovo (Besa, 1999), trad. it. D. Giancane

Giovanna Rosadini

giovanna-rosadini
S. Giorgio e il drago

per T.

Di oggi ricorderò
la luce purissima, nell’aria
e nei suoi occhi, il riverbero
che la città ridestata ai colori
emanava, l’aria addosso
sulla piattaforma del vaporetto,
mentre fuori parliamo contro
lo stantuffo dei motori, unica eco
nel panorama silente dei flutti.
Dopo, un contrasto di penombre
e frescura, nella Scuola deserta, e l’odore
vago di umido e legni stagionati. La meta
del nostro pellegrinaggio, sulla parete
di fronte, si offre muta alle nostre parole.

Di parole è fatto il tessuto che ci lega,
parole come archi e ponti protesi verso
una sponda che manca, si sottrae,
non riesce a darsi – monconi sospesi
sul rimosso dei corpi, cedimenti
emotivi tamponati dall’orgoglio;
arresi poco prima dell’arrivo,
approdo in terra sconosciuta e
forse ostile. Ora, vicino e abrasivo
nella sua presenza, apre ventagli
e dispone paraventi, crea illusionismi
schermando col proprio talento
il mondo. Tu che ti guardi vivere,
e non vedi la distanza.
Tu che mi insegni il valore
di chiamarsi col proprio nome…

È un arco anche la linea
centrale alla tela, ponte appoggiato
su macerie umane, inarcato
verso un chiarore percorso
da un alito largo, torri a occidente
e velieri verso oriente. Una doppia freccia –
la brezza che soffia a est nuvole e vele
e il gesto contrario che trafigge la bestia,
la lancia che fa ormai tutt’uno col cranio,
immobilizza nella fiera staticità
di un eterno istante
il santo guerriero e il mostro. Tutto
è ormai compiuto, irrevocabile,
fissato in una compostezza compositiva
risolutrice; non più fuoco
uscirà dalle fauci piegate in un ghigno
di resa, e l’arma spezzata
non avrà più nemici.

 

© Inedito di Giovanna Rosadini

© Foto di Dino Ignani

Giorgio Orelli

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Presenza dell’amata

Io penso a te se la brace del sole
mi sfavilla dal mare;
penso a te se in sorgive riverbera
il chiarore lunare.

Vedo te se lontano sulla strada
la polvere si leva;
e a notte fonda, se sul ponticello
il viandante trema.

Odo te se laggiù con rumorìo
sordo sale il frangente.
Spesso nel quieto bosco vado e spio,
quando tutto è silenzioso.

Io son con te; benché tu sia così
lontana, sei con me.
Cade il sole, or mi brillano le stelle.
Ah, se tu fossi qui!

 

Tutte le poesie (Mondadori, 2015)

© Foto di Felix Von Muralt

Else Lasker-Schüler

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Nell’intimo

Io penso sempre di morire,
nessuno mi ha mai amato.

Io vorrei essere silenziosa come la figura di un santo
e che tutto in me fosse spento.

Mi farebbe la sera sognante
e gli occhi piangenti.

Io non so dove andare
ma dovunque vada ci sei tu.

Tu sei la mia patria segreta
e non voglio nulla di più leggero.

Come fiorirei dolce con piacere su nell’alto
al tuo cuore azzurrocielo.

Metto sentieri soavi
intorno alla tua casa pulsante.

 

Poesie (Acquaviva, 2004), trad. it. G. D’Ambrosio Angelillo

Bei Dao

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Arte poetica

Di quell’enorme dimora cui appartengo
resta solo il tavolo, intorno
sterminate paludi
il chiarore lunare mi illumina da angoli diversi
il sogno dalla fragile ossatura sta lì come sempre
in lontananza, come un’impalcatura non ancora smantellata
e ci sono impronte di fango sulla pagina bianca
quella volta allevata per tanti anni
agitando la coda fiammeggiante
mi loda, mi ferisce

e poi, certo, ci sei tu, seduto di fronte a me
le scintille azzurro cielo che ostenti nel palmo
diventano legno secco, si trasformano in cenere

 

Speranza fredda (Einaudi, 2003)

Salvatore Ritrovato

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Sognando Omero

«Il simulacro non è mai ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero.» (Qohelet)

Omero spense la luce perché pensava:
il buio cancellerà ogni sogno.
Gli eroi, gli errori di quel poema troppo lungo
i discorsi che per abitudine o inerzia
salgono alle labbra degli oratori, tutto cancellato.
E gli dei che puntano sui match e truccano la partita.
La rivolta di Tersite contro ogni certezza.
Anche il bacio di Achille e Patroclo
e il pianto di Briseide spariranno all’alba.

Lo incontrai il giorno dopo che se ne andava
ripetendo (ma con calma): cosa ho fatto?
e fra sé: chiedetemi ancora un verso!
La sua voce appena si sente, freme un po’, si spezza.
Il tempo è come il mare, mi ha detto,
quando passa sulla sabbia:
all’inizio è solo una macchia, poi ha fretta.

 

Radure e fughe. Poesie 1989-2015 (Arcipelago Itaca, 2016)