Wallace Stevens

wallace stevens
The Emperor of Ice-Cream

Call the roller of big cigars,
The muscular one, and bid him whip
In kitchen cups concupiscent curds.
Let the wenches dawdle in such dress
As they are used to wear, and let the boys
Bring flowers in last month’s newspapers.
Let be be finale of seem.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

Take from the dresser of deal.
Lacking the three glass knobs, that sheet
On which she embroidered fantails once
And spread it so as to cover her face.
If her horny feet protrude, they come
To show how cold she is, and dumb.
Let the lamp affix its beam.
The only emperor is the emperor of ice-cream.

 

From: The Collected Poems of Wallace Stevens (Vintage Books, New York, 1982)

*

L’imperatore del gelato

Chiama quel nerboruto, l’arrotolatore
di grossi sigari e digli di montare
in tazze da cucina panne concupiscenti.
Si gingillino le fanciulle nelle vesti
consuete e portino i ragazzi
fiori avvolti in giornali vecchi di un mese.
Fa’ che l’essenza sia fine all’apparenza
Il solo imperatore è l’imperatore del gelato.

Togli dal comò d’abete povero,
senza i tre pomelli di vetro, quel lenzuolo
su cui un tempo lei ricamò colombe
e stendilo fino a coprirle il viso.
Se le spuntano i piedi callosi, sarà
per rivelare quanto è fredda, e muta.
Fa’ che la lampada proietti il suo raggio
Il solo imperatore è l’imperatore del gelato.

 

© Traduzione italiana di Andrea Sirotti

Giovanni Testori

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Ragazzo di Taino

II

Se ti vedrò sporgere
di là dal tuo silenzio
ora che mia madre lentamente muore,
non chiamerò più amore:
sudario forse della mia già iniziata
ultima stazione
anche se lunga o brevissima forse,
tenerezza scontrosa mia carissima
-ora che lei distesa guarda
per l’ultime volte i muri
e oltre la finestra il mondo
e chiedere sembra
cosa siano i giorni
e cosa mai lo spazio
tanto è passato in luce
il suo materno, umile strazio-
ti dirò di sederti a me vicino
e non chiedere, no
non chiedere niente, cuore.
La tua pupilla lascerà che si sciolga
dentro il suo negro ardore
il mio smarrito, povero dolore.

 

Poesie 1965-1993 (Mondadori, 2012)

Hermann Hesse

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Caducità

Su me dall’albero della vita
foglia su foglia cade.
O variopinto mondo senza senso
come ci rendi sazi,
sazi e stanchi
come ci rendi ebbri!
Ciò che ancor oggi arde
sprofonda presto.
Presto sibila il vento
sulla mia bruna tomba,
si reclina la madre
sul suo figlioletto.
Gli occhi suoi voglio rivedere
il suo sguardo è la mia stella,
tutto il resto vuole dileguare e sparire,
tutto muore, tutto muore volentieri.
Resta solo l’eterna Madre
dalla quale noi venimmo,
nell’aria labile le sue dita
giocano a scrivere il nostro nome.

Poesie (Guanda, 2011), a cura di M. Specchio

Lêdo Ivo

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Le necessità

Una porta chiusa non è sufficiente perché un uomo
nasconda il suo amore. Egli necessita anche di una porta aperta
per poter partire e perdersi nella folla quando questo amore esploderà
come un barile di polvere nell’arsenale raggiunto dal fulmine.
Un tetto non basta perché un uomo sia protetto
dal calore e dalla tempesta. Per sfuggire al lampo
egli necessita di un corpo steso nel letto
e a portata della sua mano ancora timorosa
di avanzare nel buio quando la pioggia cade nel silenzio del mondo aperto come un frutto
fra due tuoni.
Nella notte che declina, nel giorno che nasce,
l’uomo ha bisogno di tutto: dell’amore e del fulmine.

 

Illuminazioni (Multimedia, 2002) a cura di V. L. de Oliveira

Amelia Rosselli

rosselli ignani

nell’udire certe dissonanze
al lento chiaro di luna

poiché ciò che, infreddoliti, né io né te capiamo,
è ben oltre le nostre speranze, forse
è vero amore, disse la cornamusa
congelandomi. Mentre in lente volute le note parlavano senza paura
io chiusi gli occhi e cantai lentamente, una stretta
nel pulsare di tutte le moltitudini.

 

*

 

upon the hearing of certain dissonances
in the slow moonlight

as that which frozen neither of us understands
is out and above our hopes, perhaps that
is true love, said the big-pipe as it
froze out. As slowly with circumvolution the notes spake out
i shout my eyes and sang slowly, slight nip
into the beat of all multitudes

 

© Foto di Dino Ignani

 

Introduzione di Maria Borio

«Nel pulsare di tutte le moltitudini». Forse è questo uno dei versi attraverso cui oggi si può lanciare lo sguardo alla scrittura di Amelia Rosselli e ritrovarne la presenza in almeno due fenomeni: una tonalità emotiva centrata su una pronuncia individuale e interiore, che si sgancia dalle poetiche del Novecento e cerca con fatica la propria autenticità espressiva; e la capacità di tenere insieme più linguaggi, musica, parola, diverse lingue. Questo verso, tratto dalla raccolta Sleep-Sonno, descrive in controluce l’assemblaggio che lavora le inserzioni semantiche e il ritmo come andamento tonale, ma anche come forma grafica, elaborando la poetica musicale e visiva descritta in Spazi metrici e dando vita a quello che potrebbe essere chiamato uno ‘sperimentalismo esistenziale’…

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Amelia Rosselli, «Nuovi Argomenti», 74, 2016.
La sezione dedicata ad Amelia Rosselli, per il ventennale della scomparsa, a cura di Maria Borio, propone contributi di Nanni Balestrini, Antonella Anedda, Roberto Deidier, Stefano Giovannuzzi, Alberto Casadei, Caterina Venturini, Alessandro Baldacci, Gian Maria Annovi, Gandolfo Cascio, Laura Barile, Daniela Attanasio, Gabriella Sica, Laura Pugno, Ulderico Pesce.

Anna Toscano

toscano

Amo Bologna

Amo Bologna
vicoli stretti
melograni prosciutti
tortellini spazzole da scarpe.
Ci vedo camminare
Raimondi, Eco, Dalla, Bernardi,
li scorgo che prendono
il giornale, il caffè
ricordando come era allora
«mica era così, ma no».
Amo Bologna,
ci avevo una nonna
ci avevo una zia
a cui crollarono i vetri nell’attentato
e imprecava
i cani randagi della sorella.
Amo Bologna
e l’energia centrifuga
che esce dal Compianto
di cose belle,
come allora.

 

Una telefonata di mattina (La Vita Felice, 2016)

© Foto di Dino Ignani

Carlo Michelstaedter

A Senia

VI

Ti son vicino e tu mi sei lontana,
mi guardi e non mi vedi, o s’io ti parlo,
pur amando ascolti, non però m’intendi;
ti sono questo corpo e questi suoni,
ti sono un nome, ti son uno dei tanti,
come un altro sarebbe
che per nome e per vista conoscessi.
Io non sono per “io”, la mia vita,
io, questa mia volontà più forte,
il mio sogno, il mio mondo, il mio destino.
Io non sono per te: questo mio amore
disperato e lontano e doloroso
– gli passi accanto e non lo senti amare.
Ma ancora fra gli altri uomini t’aggiri,
con questo parli ed a quello t’affidi,
fra lor vivi e per lor, s’anco nessuno
dai la tua speme intera e la fiducia.
Ma fra l’oggi e il domani e questo e quello
ti dissolvi, e trapassi senza sole
la tua selvaggia e forte giovinezza,
e la tua speme consumando ignara
sei di te stessa – ed io mi struggo invano.
Mentre mi vince gelosia crudele
non pur di questo giovane e di quello
cui lo sguardo concedi o la parola,
ma d’ogni cosa che ti sia vicina,
ma del sole, dell’aria, ma del pane,
ché di loro ti nutri e a me sei tolta;
gelosia d’ogni giorno, d’ogni istante,
che vivi, ma non vivi di me solo,
che l’aria e il pane e il sole, che ogni cosa,
che il mondo intero, che la vita stessa
vorrei esser per te – ma tu l’ignori.

 

Poesie (Adelphi, 2005)

Claudio Rodriguez

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A volte mi domando se la notte
si chiude al mondo per aprirsi oppure
se qualcosa così d’un tratto l’apre
che non s’arriva all’alba, fuori all’alba
che non può scomparire se non c’è,
né luna o sole chiaro, chi la crea.
Neanche la mia tristezza può vederla
così com’è, se resta dentro gli astri
quando in essi il giorno è manifesto
e non rivela nella notte i campi
di intenso farsi giorno che s’affretta
in germe no, ma in luce, in albi uccelli.
Un volo ormai starà bruciando l’aria,
non perché ardente ma perché lontano.
Un limpido di stelle lustra i pini
e arriverà a lustrare anche il mio corpo.
Che altrò farò se non esporre ancora
la vita ai mille azzardi dello spazio?
È che la notte ha sempre un fuoco occulto,
uno splendore aereo, un giorno vano
per tutti i nostri sensi, attratti in alto
che non vedono o sentono là sotto.
Come la calma è un elmo per il fiume
così è il dolore brezza per il pioppo.
Così io adesso avverto che le ombre
aprono in sé la luce, e così tanto,
che la mattina sorge senza inizio
né fine, eterna già dentro il tramonto.

 

Dono dell’ebbrezza (Passigli, 2016), a cura di P. Taravacci

Yehuda Amichai

Sguinzagliare ricordi

In questi giorni penso al vento fra i tuoi capelli,
agli anni che fui nel mondo prima di te
e all’eternità che prima di te andrò a incontrare,

ai proiettili che non mi uccisero in battaglia
ma uccisero i miei amici,
di me migliori perché
non vissero oltre come me,
penso a te nuda davanti al fornello d’estate,
sul libro curva per leggere meglio
nella luce morente del giorno.

Vedi, abbiam vissuto più di una vita,
ora dobbiamo pesare ogni cosa
sulla bilancia dei sogni e sguinzagliare
ricordi che divorino ciò che fu il presente.

Poesie (Crocetti, 2001), trad. it. A. Rathaus

Cesare Viviani

Viviani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verranno mica a cercare la verità da noi,
quelli lì, anche se hanno pagato?
Prepariamoci.
Perché nessuno di noi ha la verità.
E nel vuoto qualcuno
si attacca a un libro, altri
a un legno e lo lavorano, o ad un masso.
A un cellulare, o ad un corpo vivo.
Ma il sostegno viene da altrove,
e allora puoi immaginare
che è là il tuo caro padre defunto.

 

Osare dire (Einaudi, 2016)