Maria Luisa Spaziani

Maria Luisa Spaziani

Lettera 1951

Natale altro non è che quest’immenso
silenzio che dilaga per le strade,
dove platani ciechi
ridono con la neve,

altro non è che fondere a distanza
le nostre solitudini,
sopra i molli sargassi
stendere nella notte un ponte d’oro.

Sono qui, col tuo dono che m’illumina
di dieci stelle-lune,
trasognata guidandomi per mano
dove vibra un riverbero
di fuochi e di lanterne (verde e viola),
di girandole e insegne di caffè.

Van Gogh, Parigi azzurra…
Un pino a destra
per appendervi quattro nostalgie
e la mia fede in te, bianca cometa
in cima.

 

L’incanto di Natale (Einaudi, 2012)

Pablo Neruda

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Lasciami sciolte le mani
e il cuore, lasciami libero!
Lascia che le mie dita scorrano
per le strade del tuo corpo.
La passione – sangue, fuoco, baci –
m’accende con vampate tremule.
Ahi, tu non sai cosa significa questo!

È la tempesta dei miei sensi
che piega la selva sensibile dei miei nervi.
È la carne che grida con le sue lingue ardenti!
È l’incendio!
E tu sei qui, donna, come un legno intatto
ora che vola tutta la mia vita ridotta in cenere
verso il tuo corpo pieno, come la notte, di astri!

Lasciami libere le mani
e il cuore, lasciami libero!
Io solamente ti desidero, io solamente ti desidero!
Non è amore, è desiderio che inaridisce e si estingue,
è precipitare di furie,
avvicinarsi dell’impossibile,
ma ci sei tu,
ci sei tu per darmi tutto,
e per darmi ciò che possiedi sei venuta sulla terra –
come io son venuto per contenerti,
e desiderarti,
e riceverti!

 

Poesie erotiche (Guanda, 2006), trad. it. R. Bovaia

Chinua Achebe

Chinua Achebe

 

Madre e figlio profughi

Nessuna Madonna con Bambino poteva eguagliare
quell’immagine di tenerezza di madre
per un bambino che presto doveva dimenticare.

L’aria era pesante di odori
di diarrea di bambini non lavati
con costole slavate e sederi prosciugati
in lotta con passi affaticati dietro vuoti ventri rigonfi.
Molte lì hanno da tempo cessato
di preoccuparsi, ma non quella madre,
che manteneva tra i denti un sorriso spettrale,
e negli occhi il fantasma dell’orgoglio materno
mentre gli pettinava i capelli rugginosi
rimasti sul cranio, e poi,
solo negli occhi cantando, iniziò
a ripartirgli adagio… In un’altra vita
questo sarebbe stato un piccolo atto quotidiano
privo d’importanza tra colazione e scuola:
ora lei lo faceva come ponendo fiori
sulla minuscola tomba di un bambino.

Attento ‘Soul Brother’! (Jaca book, 1995), trad. it R. Mussapi, T. Sorace Maresca

Valerio Grutt

grutt interno poesia

 

Le mani di quelli che ami
sono fontane di luce
le tieni strette come appigli
nelle tempeste e nelle cadute.
Le mani di quelli che ami
sono case dove ripararsi
e tubi e cunicoli e cavi
dove corre l’amore
senza fermarsi e rami
che salgono e bucano
nuvole e stelle, sono pane
e minestre, e voli, navicelle.
Le mani di quelli che ami
neanche la morte
te le toglie dalle mani.

 

© Inedito di Valerio Grutt

Alba Donati

alba-donati

 

Alberi di Natale

Venendo su da Lucca, per la fondovalle,
fin da bambina contavo gli alberi di Natale
illuminati nella notte: Marlia, Lammari,

la montagna di Vinchiana, Borgo a Mozzano,
la valle, di là dalla ferrovia, di Bagni di Lucca,
Calavorno, ne contavo fino a settanta-ottanta.

Ce n’era di luminescenti, di luci fisse,
con faville colorate o luci argentate,
alcuni giganteschi, altri che appena si vedevano.

Ma, in verità, qualcosa non avevo visto:
stavano tutti davanti a case semplici,
e nemmeno uno nel giardino di una grande villa.

Meglio, mi dico, era lo sguardo di bambina
che di quelle luci faceva una carrozza leggendaria
che univa tutto dalla città fino a Lucignana.

 

Idillio con cagnolino (Fazi, 2013)

William Cliff

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Malinconia
(su un disegno di Fréderic Pajak)

quando ero bambino solitario in campagna
e il cielo aperto mi cadeva sulla testa
e il mare intorno mormorava per venire
a rinchiudermi in una putrida marea

quando in calzoncini sporchi e ridicoli
mostravo le mie ginocchia storte ed ero
un insetto perso nell’umore infinito
degli adulti cattivi che bestemmiavano

allora mi fermavo un momento in spiaggia
e con la mano mi coprivo la faccia per
non vedere l’orrore di esser nato in terra
e aspettare sempre che rispunti il sole

 

Poesie scelte (Fermenti, 2015), a cura di F. Bajec

Juana Castro

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Calice

E ora sono
così uguale a te, madre,
che non mi riconosco dentro il vetro
di quel ritratto tuo così presente.
Se sapessi che tutto
quel che ho odiato di te e maledicevo
adesso in me lo scopro
così esatto e recente come il cerchio
d’una pietra nell’acqua, ripetuta.
Vengo ancora a vederti.
Taccami, e le mie dita
metti qui sopra le tue piaghe, ed aprimi
questa rosa di spine nel costato.
Son così tua che il mare la tua voce
per il suo canto copia dalla mia.
E mi sveglio e al momento stesso vivo
quella tua immensa sete, che per sempre
nelle tue ossa vuote
ardeva irrimediabile.
Non sono il tuo fantasma,
voglio, risuscitata, ora crearti
nel filo di chi il mio essere t’ha dato.
Da morta e morta dimmi:
Chi sta allattando chi, serpente mio?

 

Io sempre a te ritorno – Poesie per la madre (Crocetti, 2001), a cura M. G. Maioli Loperfido

Mario De Santis

mario de santis

 

Volano carte piccole di povero alluminio
un tesoro di stagnola che modula apparizioni
come zanzare, pagine lunari, ultimi treni.

Abito l’inabile paesaggio, fatto e divorato,
nei vincoli la furia estiva, gli insetti stanno nel cavo
di sonno a milioni come noi, un bolo incandescente
con la bassa intensità di un disordine dei led
i maledetti, azzurri sciami:
precipita con loro, nel centro della casa,
il punto acido del mondo,
si vedono nell’attimo in cui il sonno la notte
prepara l’erosione, poco prima del risveglio.

E quando arriva in corpo, tutta questa vaga
luminaria, l’orbita coriandolare dei colpi d’ala
è reminiscenza totale, è così pura, e rifugio.
Lo svenimento, il crollo impotente ci narra
Una trama semplice, di una mosca della sua fuga
nella luce, in quella resa
alla ragnatela. Si diventa così, capaci di abitare
le città, perché capace è solo l’abbandono.

 

da Sciami (Ladolfi, 2015)

Dylan Thomas

Dylan Thomas

 

Do not go gentle into that good night

Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Though wise men at their end know dark is right,
Because their words had forked no lighting they
Do not go gentle into that good night.

Good men, the last wave by, crying how bright
Their frail deeds might have danced in a green bay,
Rage, rage against the dying of the light.

Wild men who caught and sang the sun in flight,
And learn, too late, they grieved it in its way,
Do not go gentle into that good night.

Grave men, near death, who see with blinding sight
Blind eyes could blaze like meteors and be gay,
Rage, rage against the dying of the light.

And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless, me now with your fierce tears, I pray.
Do not go gentle into that good night.
Rage, rage against the dying of the light.

 

From: The Poems of Dylan Thomas (New Directions, 1952)

*

Non andartene gentile in quella notte buona

Non andartene gentile in quella notte buona:
Deve insorgere l’età e bruciare, al termine del giorno,
Con furia, furia contro la luce che abbandona.

I saggi infine vedono che il buio è giusto
Perché il loro verbo non ha sprigionato il lampo, eppure
Non se ne vanno gentili in quella notte buona.

I mansueti all’onda estrema urlano che radioso
Danzerebbe il loro fiacco gesto in una baia verde,
Con furia, furia contro la luce che abbandona.

Gli audaci che il sole a volo presero cantando
E tardi capirono di averne addolorato il corso
Non se ne vanno gentili in quella notte buona.

Gli austeri con vista accecante in morte scoprono
Che come stelle anche occhi ciechi sanno brillare allegri,
Con furia, furia contro la luce che abbandona.

E tu, padre mio, là sopra quella triste altezza,
Maledici, benedici me, ti prego, col tuo pianto fiero.
Non andartene gentile in quella notte buona.
Infuria, infuria contro la luce che abbandona.

 

© Versione italiana di Simone Pagliai

Gabriella Sica

gabriella sica

 

Campo de’ fiori

a Czesław Miłosz

Sono tornata a Campo de’ fiori
un mattino di maggio
era uno dei luoghi più belli di Roma
dove tornare sempre con gioia
come nei bar e nei mercati all’aperto
brillanti dei rasi colori
dove a festa vanno occhi e cuori.
Andate, andate a vedere
a piangere il tempo che passa.

Noi giardinieri così impoveriti
non abbiamo più a primavera i fiori.

Il tempo ha logorato Campo de’ fiori
non i roghi ma solo i mesi e gli anni
appena due o tre forse,
il tempo per qualcuno dei fiori
sparito,
ha rapito fragranza linfa e colori
alla piazza marcita
volgare di misere finte erbacce
e fetori finti.

Siamo a primavera senza più i fiori
noi ancora giardinieri dell’umano.

 

Cara Europa che ci guardi (1915-2015), Cooper, 2015

© Foto di Dino Ignani