Maria Grazia Calandrone

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Lo scheletro del ponte

La rimozione delle spoglie gialle degli insetti e del grano da parte del vento (una mole
di vento) che si arrotola e scioglie lungo la scarmigliata verticale
dell’abete, corre sotto i ventricoli dell’albero – contro
la resistenza metallica del cielo in panne nel sole
che si carica (con sfacciata irruenza) di argini e miele di questo mondo dove la bragia dell’oriente ha un rigonfiamento atomico
andando verso il quartiere di ferro degli sfasciacarrozze.

Cose che fanno respirare. La magnitudine. Lontana
dalla serrata riservatezza della cosa – cose
per metà vere che rincrescono.
La fermata improvvisa del cuore nell’opera ciclopica (nell’astratto ricalco) dell’amplesso.

Le conseguenze e i mezzi della scomparsa: polvere
ossea nel materiale di risulta edile. L’occhio
numerico [mimetico e malinconico di K.] si volta e viene a galla
un’erba
smidollata e oleosa: i lineamenti spaziotemporali della gazzella in fiore, l’uomo che ieri
avanzava disarmato e immemorabile – trovava posto
nel contagioso zelo del cantiere
e tutto ciò che aveva nelle mani era bufera
di baci, era perduto.

 

© Inedito da Gli scomparsi, storie da “Chi l’ha visto”
Foto di Dino Ignani

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