Elevazione della vittima nel suo fiore finale
Osserva la struttura di lei che sboccia
andando per una sola volta da radice a fiore
e dice io non capisco il tempo ma ora so
quanto sia duro e definitivo il fiorire
e dice: io ti porto
come si porta uno stendardo finale
e dice: io vedo
come negli spalancamenti tu non somigli
a niente, nemmeno a quello
che tornava da me
con un capo di sangue
e tornava lo spreco della sua bocca
che era stata formata
per essere sprecata
nei lamenti d’amore
e il misero splendente occhio lo diffondeva
come una partitura senza dolore
e dice: adesso
fai del mio biancore quello che vuoi,
lascia che tutto il dilapidarsi
della mia compassione sia ristretto in un’unica stanza di pietra serena
sotto la gloriosa ingiuria del sole, lascia che io mi paragoni
al tuo essere illeso
e mi trovi per ciò come una selce piatta
e scavata da un astro polare,
lascia che io contenga i filamenti
con una segretezza reale
e lascia che la consistenza del mio corpo sfumi
in un vociare di capre e di mufloni e salga
fra le alte stelle erose
con la faccia colata nel bronzo come un giacinto d’acqua, un’isola
del ferro, di carbonio e di rose
dure come proiettili,
lascia che il sasso esprima le sue voci umane,
lascia che il graffio sulla pietra torni
a urlare al predatore e alla sua ombra sulla superficie della terra: lasciami!
vivere, lascia il mio sangue
vivere, lasciami immersa
con boccioli di sangue senza dogma
nell’impassibile nudità del mare,
lasciami dove siamo cominciati
e nel nostro fine: il rumore di acqua sull’acciaio
che sono stata, niente
di più leggero,
fai che i miei resti siano i tuoi strumenti di salvezza.
© Inedito di Maria Grazia Calandrone da Il bene morale
Splendida, complimenti all’autrice.
Giovanni Asmundo
Questi versi contengono immagini e suggestioni che mi colpiscono nel profondo. Come se Maria Grazia avesse raccolto e radunato tutto ciò che vibra in un’estasi dinanzi a un fiore, nelle voci della pietra, nell’essere immersi, per restituirle in un ultimo slancio, in un fiotto di luce.