Mark Strand

Portrait Of Mark Strand

 

La fine

Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine,
guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà
quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine,
o cosa spererà una volta capito che non tornerà più.

Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto,
quando il tramonto che infiamma il prato e la luna piena che lo gela
non compariranno più, non ogni uomo sa cosa scoprirà al loro posto.
Quando il peso del passato non si appoggia più a nulla, e il cielo

non è più che luce ricordata, e le storie di cirro
e cumulo giungono alla fine, e tutti gli uccelli stanno sospesi in volo,
non ogni uomo sa cosa lo attende, o cosa canterà
quando la nave su cui si trova scivola nel buio, là alla fine.

 

 

L’uomo che cammina un passo avanti al buio. Poesie 1964-2006 (Mondadori, 2011), trad. it. D. Abeni

 

Gëzim Hajdari

Gëzim Hajdari

 

Tu esisti di fronte all’inverno
come una ferita. Immobile e forestiera
in uno spazio imperfetto, mai ospitale,
aspettando che il silenzio uniforme della sabbia
ti parli del segreto.
Non ti stordire dei fiumi vaganti e dei nuovi alberi
che prima non c’erano. D’intorno continuerà la caducità
delle cose, la scomparsa dei poeti che legano
il cielo alla terra.
È detto che moriremo nelle terre opposte.
I miei anni: fuga nell’ignoto e risvegli spaventati nella notte.

 

da Poesie scelte (Controluce, 2014)

Maria Grazia Calandrone

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Elevazione della vittima nel suo fiore finale

Osserva la struttura di lei che sboccia
andando per una sola volta da radice a fiore
e dice io non capisco il tempo ma ora so
quanto sia duro e definitivo il fiorire
e dice: io ti porto
come si porta uno stendardo finale
e dice: io vedo
come negli spalancamenti tu non somigli
a niente, nemmeno a quello
che tornava da me
con un capo di sangue
e tornava lo spreco della sua bocca
che era stata formata
per essere sprecata
nei lamenti d’amore
e il misero splendente occhio lo diffondeva
come una partitura senza dolore
e dice: adesso
fai del mio biancore quello che vuoi,
lascia che tutto il dilapidarsi
della mia compassione sia ristretto in un’unica stanza di pietra serena
sotto la gloriosa ingiuria del sole, lascia che io mi paragoni
al tuo essere illeso
e mi trovi per ciò come una selce piatta
e scavata da un astro polare,
lascia che io contenga i filamenti
con una segretezza reale
e lascia che la consistenza del mio corpo sfumi
in un vociare di capre e di mufloni e salga
fra le alte stelle erose
con la faccia colata nel bronzo come un giacinto d’acqua, un’isola
del ferro, di carbonio e di rose
dure come proiettili,
lascia che il sasso esprima le sue voci umane,
lascia che il graffio sulla pietra torni
a urlare al predatore e alla sua ombra sulla superficie della terra: lasciami!
vivere, lascia il mio sangue
vivere, lasciami immersa
con boccioli di sangue senza dogma
nell’impassibile nudità del mare,
lasciami dove siamo cominciati
e nel nostro fine: il rumore di acqua sull’acciaio
che sono stata, niente
di più leggero,
fai che i miei resti siano i tuoi strumenti di salvezza.

 

© Inedito di Maria Grazia Calandrone da Il bene morale

Bertolt Brecht

Bertolt-Brecht

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Leggenda di Natale

Oggi stiamo seduti, alla vigilia
di Natale, noi, gente misera,
in una gelida stanzetta.
Il vento corre di fuori, il vento entra.
Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo:
perché tu ci sei davvero necessario.

Oggi noi qui intorno siamo seduti
come i pagani oscuri.
Fredda, sulle nostre ossa, la neve cade:
a ogni costo la neve vuole entrare.
Entra, neve, da noi, non dire motto:
anche nel cielo tu non hai un posto.

Noi prepariamo un’acquavita, dopo
saremi leggeri, con più calore in corpo.
Noi prepariamo un’acquavita calda
brancola un bestione intorno alla nostra capanna.
Entra, bestia, da noi, ma muoviti:
non avete un posto caldo neanche oggi.

Noi mettiamo le giacche nel fuoco
così avremo più caldo dopo!
Dopo per noi ardono subito le travi.
Solo al mattino saremo gelati.
Vieni, buon vento, ti vogliamo ospitare:
perché, anche tu, non hai un focolare.

 
L’incanto di Natale (Einaudi, 2012)

Raymond Carver

 

Madre

Mia madre mi telefona per augurarmi Buon Natale.
E informarmi che se continua a nevicare in questo modo
ha intenzione di ammazzarsi. Le vorrei dire
che stamattina non mi sento in vena, che per favore
mi faccia respirare. Mi sa che mi toccherà ancora
prendere in prestito un analista. Quello che mi chiede sempre
la cosa più feconda: “Ma dentro cosa sente veramente?”.
Invece le dico che uno dei nostri lucernari
perde. Mentre le parlo, la neve si sta sciogliendo
sul divano. Le dico che faccio una colazione ricca di fibre
e perciò non deve più preoccuparsi tanto
che mi venga il cancro e i suoi soldi finiscano.
Lei mi sta ad ascoltare. Poi mi informa
che vuole andarsene da questo posto maledetto. In un modo o nell’altro.
Che l’unica volta che vuole rivederlo è dalla bara. E la cosa vale
anche per me. D’un tratto le domando se si ricorda quando papà,
ubriaco fradicio, decise di mozzare la coda al cucciolo di labrador.
Continuo per un pezzo a parlare dei vecchi tempi.
Lei ascolta, aspetta che venga il suo turno.
La neve non smette. Nevica e continua a nevicare
mentre me ne sto aggrappato al telefono. Alberi e tetti
ne sono tutti ricoperti. Come faccio a parlarne?
Come faccio a spiegare quello che sento?

 

Orientarsi con le stelle. Tutte le poesie (Minimum fax, 2013), trad. it. R. Duranti e F. Durante

Valerio Magrelli

Foto_Magrelli

 

Annunci immobiliari

Affittasi villino sopra la ferrovia
con tavernetta adiacente
il capolinea dei bus
e salotto limitrofo al metrò.
Povere case abitate dal rumore
dove famiglie piccole e isolate
si stringono – uccelletti sopra i cavi
dell’alta tensione. L’alta
tensione del censo
e delle classi, l’alta
tensione del denaro,
quella scossa invisibile
che divide le vacche
nei campi, e voi da noi.
Non toccare la corrente che ti scivola accanto,
lasciala sospirare mentre romba
via sui tralicci
nel suo cupreo fiume
intrecciato.

Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999)

Marco Bini

Marco Bini

 

Perché non sia la nebbia un infarto a mezz’aria delle cose,
che tutto già pesa da sgocciolare fino a terra.
Non sia spazio, spazio ancora, superflua distanza
cosparsa tra i viventi. Non sbandiamo, teniamoci d’occhio.

Non c’è luce che non passi dal fondo del tunnel
prima di investire la pupilla all’altro capo
col respiro che si allarga rinnovandoci la pelle.

Viene l’ora di portare le ossa a crepitare contro il fuoco;
quando il sole scende al primo piano e la casa
è una meraviglia di arancione per la retina
vorremmo liberarci dai contorni nella stretta,
lasciare lo zaino a terra e correre alle braccia che consolino
queste spalle troppo forti ancora da non servire a niente.

 

da Conoscenza del vento (Ladolfi, 2011)

Foto di Daniele Ferroni

Jamie McKendrick

jamie

 

Margine

Alcuni giocavano a pallavolo usando reti di pescatori;
altri bevevano lattine di Peroni; altri ancora battevano
l’interno in cerca di selci e fonti d’acqua limpida.

Andavo vagando per la riva in direzione del porto
e del cieco faro di Palinuro,
e trovai un delfino che si rovesciava sull’orlo della marea

ottusamente, la pelle a logorarsi sulle pietre appuntite;
poi il filamentoso, accoltellato respiro affannoso del timoniere
fece ritorno dalle ombre e una luce appiccò

il fuoco attraverso la muta laringe della roccia
a Cuma – la pazza che canticchiava solo per calmarlo:
quel luogo crudele porterà per sempre il tuo nome.

 
Chiodi di cielo (Donzelli, 2003), trad. it. L. Guernieri

Chiara De Luca

chiara de luca

 

Irma

Irma era la terza nonna honoris causa
nessuno lo sapeva ma lei era regina
della strada che abitavo da bambina;

con la vita fina e i fianchi danzanti
le gambe di giunchi e i gigli dei denti
e camelie di capelli cotonati con cura
attorno al capo come una corona,

Irma non perdeva un solo colpo
a bordo dalla bianca Cinquecento
quando coi tacchi alti e il parasole
partiva dritta e fiera verso il mare;

Irma che fingeva d’infornare
la mitica ciambella “superiore”
che dal pasticcere invece comprava
per noi bambini nel fine settimana;

Irma che diceva di parlare con i fiori
di non lasciarli mai nel silenzio da soli,
lei che riesumava ciclamini e vi spuntava
nel mezzo sorridente al davanzale
sporgendosi per invitarci a salire;

Irma che senza una ragione
un giorno mi ha donato il sole
giallo del mio piccolo tenore

Cippi il canarino che sapeva
scrosciare con la voce come un fiume
perdersi in onde e vortici nel mare

del suo assolo che sembrava risalire
infinito per sfumare quando il sole
tramontava con il capo sotto l’ala;

Irma che mi ha lasciata sola
quando ero già tanto lontana
da questa mia città così sorda,
o burlona.

 

© Inedito di Chiara De Luca