Heinrich Heine

Mir träumte wieder der alte Traum

Mir träumte wieder der alte Traum:
Es war eine Nacht im Maie,
Wir saßen unter dem Lindenbaum,
Und schwuren uns ewige Treue.

Das war ein Schwören und Schwören aufs neu,
Ein Kichern, ein Kosen, ein Küssen;
Daß ich gedenk des Schwures sei,
Hast du in die Hand mich gebissen.

O Liebchen mit den Äuglein klar!
O Liebchen schön und bissig!
Das Schwören in der Ordnung war,
Das Beißen war überflüssig.

*

Il sogno antico

Sognai una volta ancora il sogno antico:
era di notte, a maggio, sotto a un tiglio
noi sedevamo e intanto giuravamo
l’uno all’altra perenne fedeltà.

Un giuramento e un giuramento ancora,
una risata, un bacio, una carezza;
e perché dell’impegno fossi memore,
un morso sulla mano tu m’hai dato.

O dolce amata coi tuoi occhi chiari!
O dolce amata, bella ed elegante!
Forse era doveroso il giuramento,
ma il morso, no, non era necessario.

Buch der Lieder (ed. Hoffmann und Campe, 1827), ed. it. Il libro dei canti (Einaudi, 1983)

(Traduzione inedita di Luca Alvino)

Michael Krüger


Cosa c’è ancora da fare

per il settantesimo di Peter Handke

Raccogliere le noci
prima che se le prenda lo scoiattolo;
mettere l’ombra in sicurezza,
parlare con la matita
quando questa rifiuta le parole;
non voler trovare il nemico
che cova nel non-pensato;
leggere nelle nuvole
nell’interminabile epos
su forma e trasfigurazione;
togliersi il sasso dalla fronte;
fare allo stupore la grazia di una proroga.

E non dimenticare: di andare nel posto
dove si è cacciato il libro,
il libro con le pagine vuote,
il libro vuoto, il libro.

Spostare l’ora (Mondadori, 2015), trad. it. A. M. Carpi

Else Lasker-Schüler


Io mi prendo nelle notti
Le rose della tua bocca
Che nessun’altra ci beva.

Quella che ti abbraccia
Mi deruba dei miei brividi
Che intorno al tuo corpo io dipinsi.

Io sono il tuo ciglio di strada.
Quella che ti sfiora
Precipita.

Senti il mio vivere
Dovunque
Come orlo lontano?

Rivista “Poesia” (Nr.190, 2005), Crocetti Editore

Hans Magnus Enzensberger


Sovente ho la sensazione (bruciante,
oscura, indefinibile ecc.)
che l’Io non sia un dato di fatto
bensì una sensazione
di cui non mi libero.

La coltivo, le do spazio,
la corrispondo, di caso in caso.
Ma è solo una delle tante.

Le sensazioni si possono contare all’infinito,
cioè si lasciano sostanzialmente numerare,
fino alla noia.

Il numero della gelosia
è manifestamente il sette.
Anche la paura è un numero primo.
E ho la vaga sensazione
che l’umiliazione
rechi sulla fronte il 188 −
un numero senza qualità.
Anche la sensazione di essere numerato
suppongo sia da un pezzo numerata,
però: a che pro e da chi?

La sublime sensazione dell’ira
abita nel Grand Hotel di Hilbert
una stanza diversa
dalla sensazione
di essere superiori all’ira.

E solo chi è capace di darsi
alla sensazione astratta
dell’astratto sa
che questa in certe notti particolarmente chiare
suole assumere il valore di √− 1.

Poi mi corrono di nuovo i brividi
per la schiena, la sensazione
di essere un pacco,
quella non sensibile sensazione di intorpidimento
che sembra faccia scoppiare la lingua
dopo un’iniezione
quando va a saggiare un dente,
o il disagio
col suo penetrante sapore di piombo,
la potente sensazione d’impotenza
che tira irresistibilmente verso lo zero,
e la falsa sensazione
della vera emozione
con la sua orribile frazione continua.

Poi mi riempie
un’intersezione di sentimenti confusi,
colpa, estraneità, benessere, perdita,
tutte in una volta.

Soltanto alla suprema della sensazioni
l’Io sarebbe impari.
Invece di cercare di trascendere
con limite ∞,
preferisce lasciarsi sopraffare
per un minuto
dalla scossa dell’acqua gelido-bollente
sotto la doccia, il cui numero
nessuno ha ancora decifrato.

 

Chiosco (Einaudi, 2013) trad. it. Anna Maria Carpi

Dietrich Bonhoeffer


Chi sono io?

Chi sono io? Mi dicon spesso
che esco dalla mia cella

calmo e lieto e saldo,

come il padrone dal suo castello.

Chi sono io? Mi dicon spesso
che parlo alle mie guardie
libero e amichevole e chiaro,
come fossi io a comandare.

Chi sono io? Mi dicon anche

che sopporto i giorni della sventura
impavido e sorridente e fiero,

come chi è avvezzo alla vittoria.

Io, in realtà, son ciò che gli altri dicono di me?
O sono solo ciò che so io di me stesso?
Inquieto, nostalgico,
malato come un uccello in gabbia
bramoso d’un respiro vivo
come mi strozzassero la gola,
affamato di colori, di fiori,
di cinguettii,
assetato di parole buone,
di presenza umana,

tremante di collera davanti all’arbitrio
e alla più meschina umiliazione,
roso per l’attesa di grandi cose,
impotente e preoccupato per l’amico
ad infinita distanza,
stanco e vuoto per pregare,
per pensare, per creare,
esausto e pronto a prendere congedo da tutto?

Chi sono io? Questo o quello?

Oggi uno, domani un altro?

Sono tutt’e due insieme? Davanti agli uomini
un simulatore
e davanti a me stesso
uno spregevole, querulo rottame?
O ciò che in me c’è ancora rassomiglia
all’esercito sconfitto,
che si ritira in disordine
di fronte a una battaglia già vinta?

Chi sono io? Domandare solitario
che mi irride.
Chiunque io sia, Tu mi conosci,
Tuo sono io, o Dio!

Dietrich Bonhoeffer, Poesie (Marietti1820, 2023)

Hans Magnus Enzensberger


Sovente ho la sensazione (bruciante,
oscura, indefinibile ecc.)
che l’Io non sia un dato di fatto
bensì una sensazione
di cui non mi libero.

La coltivo, le do spazio,
la corrispondo, di caso in caso.
Ma è solo una delle tante.

Le sensazioni si possono contare all’infinito,
cioè si lasciano sostanzialmente numerare,
fino alla noia.

Il numero della gelosia
è manifestamente il sette.
Anche la paura è un numero primo.
E ho la vaga sensazione
che l’umiliazione
rechi sulla fronte il 188 −
un numero senza qualità.
Anche la sensazione di essere numerato
suppongo sia da un pezzo numerata,
però: a che pro e da chi?

La sublime sensazione dell’ira
abita nel Grand Hotel di Hilbert
una stanza diversa
dalla sensazione
di essere superiori all’ira.

E solo chi è capace di darsi
alla sensazione astratta
dell’astratto sa
che questa in certe notti particolarmente chiare
suole assumere il valore di √− 1.

Poi mi corrono di nuovo i brividi
per la schiena, la sensazione
di essere un pacco,
quella non sensibile sensazione di intorpidimento
che sembra faccia scoppiare la lingua
dopo un’iniezione
quando va a saggiare un dente,
o il disagio
col suo penetrante sapore di piombo,
la potente sensazione d’impotenza
che tira irresistibilmente verso lo zero,
e la falsa sensazione
della vera emozione
con la sua orribile frazione continua.

Poi mi riempie
un’intersezione di sentimenti confusi,
colpa, estraneità, benessere, perdita,
tutte in una volta.

Soltanto alla suprema della sensazioni
l’Io sarebbe impari.
Invece di cercare di trascendere
con limite ∞,
preferisce lasciarsi sopraffare
per un minuto
dalla scossa dell’acqua gelido-bollente
sotto la doccia, il cui numero
nessuno ha ancora decifrato.

Chiosco (Einaudi, 2013), trad. it. A. M. Carpi

Gottfried Benn

gottfried-benn

Devi saperti immergere, devi imparare,
un giorno è gioia e un altro giorno obbrobrio,
non desistere, non puoi andartene
quando è mancata all’ora la sua luce.

Durare, aspettare, giù in fondo,
ora sommerso, ora ammutolito,
strana legge, non sono faville,
non soltanto – guardati attorno:

la natura vuole fare le sue ciliegie
anche con pochi semi in aprile
conserva le sue opere di frutta
tacitamente fino agli anni buoni.

Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa mai se davvero la corolla fiorirà –
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, invecchiare, aprèslude.

 

Aprèslude (Einaudi, 1966), trad. it. F. Masini

Thilo Krause

Ph. Sébastien Agnetti

Tornare a splendere

I papaveri sono approdati in terrazza
sbucati dalle fessure, fioriti
finché li ha sfogliati la pioggia.
Portavamo dentro casa i petali
appiccicati ai nostri piedi nudi
li ritrovavamo a letto, tra armadi e scaffali
come fossero le cose a crescere e sfiorire.
Le capsule scoppiavano una a una.
Neri semini cocciuti.
Li abbiamo soffiati nelle fessure
e lì dentro li abbiamo lasciati:
piccoli soli scuri con la forza
di tornare a splendere dall’oblio.

Che si dice mentre tuona (Marcos y marcos, 2022)

Anya Kampmann


nowa sól

fioriscono le rosse graminacee
e al vetro
di ormai morte lanterne
si appiglia l’ultima luce

il papavero rosso
appeso ai fili è
seccato da tempo boschi di fresco verde
racchiudono la regione

solo gli spaventapasseri indicano
le direzioni con
lunghe braccia tubi oscillanti
ritagliati nella plastica

passammo loro accanto nel vagone
i freni funzionavano male

voleva scendere la sera
di dietro alle lanterne
la campagna si alzava in ondate

come ingoiasse ancora
qualcosa
con la sua gola senza direzione

quasi tremasse sotto il vento leggero.

 

Traduzione di Nino Muzzi

Poesia n. 325 Aprile 2017

Ingeborg Bachmann


D’inverno la mia amata
sta fra gli animali del bosco.
Ch’io sia costretto a rientrare all’alba
sa quella volpe, e ne ride.
Come rabbrividiscono le nuvole!
E sopra il mio bavero innevato
una lastra di ghiacciuoli s’infrange.

D’inverno la mia amata
è un albero fra gli alberi
e invita le cornacchie derelitte
tra i suoi rami leggiadri.
Ella sa che, quando albeggia, il vento
solleva il suo abito da sera,
rigido, ricoperto di brina,
e mi ricaccia a casa.

D’inverno la mia amata
sta fra i pesci ed è muta.
Schiavo dell’acque che la carezza
delle sue pinne internamente muove,
sto ritto alla riva,
e la guardo tuffarsi e voltolarsi,
finché lastre di ghiaccio mi allontanano.

E poi di nuovo colpito
dal richiamo di caccia dell’uccello
che sopra me drizza le ali,
stramazzo in aperta campagna:
lei spenna i polli e mi getta
una bianca clavicola. In mezzo
all’amaro pulviscolo di piume
intorno al collo me l’appendo e scappo.

La mia amata è infedele.
So che talora librata
sugli alti tacchi se ne va in città,
e bacia nei bar con la cannuccia
profondamente la bocca dei bicchieri,
e trova parole per tutti.
Ma tale linguaggio io non intendo.

Paese di nebbia ho veduto,
cuore di nebbia ho mangiato.

Poesie (Guanda, 1978), trad. it. Maria Teresa Mandalari