Sovente ho la sensazione (bruciante,
oscura, indefinibile ecc.)
che l’Io non sia un dato di fatto
bensì una sensazione
di cui non mi libero.
La coltivo, le do spazio,
la corrispondo, di caso in caso.
Ma è solo una delle tante.
Le sensazioni si possono contare all’infinito,
cioè si lasciano sostanzialmente numerare,
fino alla noia.
Il numero della gelosia
è manifestamente il sette.
Anche la paura è un numero primo.
E ho la vaga sensazione
che l’umiliazione
rechi sulla fronte il 188 −
un numero senza qualità.
Anche la sensazione di essere numerato
suppongo sia da un pezzo numerata,
però: a che pro e da chi?
La sublime sensazione dell’ira
abita nel Grand Hotel di Hilbert
una stanza diversa
dalla sensazione
di essere superiori all’ira.
E solo chi è capace di darsi
alla sensazione astratta
dell’astratto sa
che questa in certe notti particolarmente chiare
suole assumere il valore di √− 1.
Poi mi corrono di nuovo i brividi
per la schiena, la sensazione
di essere un pacco,
quella non sensibile sensazione di intorpidimento
che sembra faccia scoppiare la lingua
dopo un’iniezione
quando va a saggiare un dente,
o il disagio
col suo penetrante sapore di piombo,
la potente sensazione d’impotenza
che tira irresistibilmente verso lo zero,
e la falsa sensazione
della vera emozione
con la sua orribile frazione continua.
Poi mi riempie
un’intersezione di sentimenti confusi,
colpa, estraneità, benessere, perdita,
tutte in una volta.
Soltanto alla suprema della sensazioni
l’Io sarebbe impari.
Invece di cercare di trascendere
con limite ∞,
preferisce lasciarsi sopraffare
per un minuto
dalla scossa dell’acqua gelido-bollente
sotto la doccia, il cui numero
nessuno ha ancora decifrato.
Chiosco (Einaudi, 2013) trad. it. Anna Maria Carpi