Dalia Rabikovitch

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Ecc. ecc.

Cos’è l’amore? ho chiesto a Idò
e lui m’ha guardato brusco di traverso
e mi ha detto con rabbia e compassione:
se ancora non lo sai
non lo saprai mai più.
E allora io gli ho detto senza rabbia e senza compassione
ma con sguardo accattivante, un poco divertito
io lo so cos’è l’amore
volevo solo controllare la tua verbalità
la tua capacità di espressione in ebraico,
e poi volevo anche un pizzico di rabbia e compassione
per non perdere la tensione,
perché non si cominci ad annoiarci a vicenda
e non si bisticci e non ci si chieda scusa,
che poi mi ci rodo,
io lo so cos’è l’amore.
Amo te, per esempio.

Poeti israeliani (Einaudi, 2007), a cura di A. Rathaus

Vicente Aleixandre


Si amavano.
Pativano la luce, labbra azzurre nell’alba,
labbra ch’escono dalla notte dura,
labbra squarciate, sangue, sangue dove?
Si amavano in un letto battello, mezzo tra notte e luce.

Si amavano come i fiori le spine profonde,
o il giallo che sboccia in amorosa gemma,
quando girano i volti melanconicamente,
giralune che brillano nel ricevere il bacio.

Si amavano di notte, quando i cani profondi
palpitano sotterra e le valli si stirano
come arcaici dorsi a sentirsi sfiorare:
carezza, seta, mano, luna che giunge e tocca.

Si amavano d’amore là nel fare del giorno
e tra le dure pietre oscure della notte,
dure come son corpi gelati dalle ore,
dure come son baci di dente contro dente.

Si amavano di giorno, spiaggia che va crescendo,
onde che su dai piedi carezzano le cosce,
corpi che si sollevano dalla terra e fluttuando…
Si amavano di giorno, sul mare, sotto il cielo.

Mezzogiorno perfetto, si amavano sí intimi,
mare altissimo e giovane, estesa intimità,
vivente solitudine, orizzonti remoti
avvinti come corpi che solitarî cantano.

Che amano. Si amavano come la luna chiara,
come il mare che colmo aderisce a quel volto,
dolce eclisse di acqua, guancia dove fa notte
e dove rossi pesci vanno e vengono taciti.

Giorno, notte, occidente fare del giorno, spazi,
onde recenti, antiche, fuggitive, perpetue,
madre o terra, battello, letto, piuma, cristallo,
labbro, metallo, musica, silenzio, vegetale,
mondo, quiete, la loro forma. Perché si amavano.

La distruzione o amore (Einaudi, 1970), trad. it. F. Tentori Montalto

Alfonso Brezmes


Poetica dello sfratto

Mi piacciono quelle poesie
dove non accade nulla
o ciò che accade
resta fuori scena.

Come quelle case vuote
che sono più grandi
dentro che fuori
e ancora conservano i segni
dei loro vecchi inquilini.

O quei vecchi quadri di Hopper
dove sempre accade qualcosa
che sa soltanto lui.

Quando non ci sono (Einaudi, 2021), trad. di Mirta Amanda Barbonetti

Michele Mari


Ti cercherò sempre
sperando di non trovarti mai
mi hai detto all’ultimo congedo

Non ti cercherò mai
sperando sempre di trovarti
ti ho risposto

Al momento l’arguzia speculare
fu sublime
ma ogni giorno che passa
si rinsalda in me
un unico commento
ed il commento dice
due imbecilli

 

Cento poesie d’amore a Ladyhawke
(Einaudi, 2007)

Jorge Luis Borges

borges-a

Elogio dell’ombra

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)
può essere per noi il tempo più felice.
È morto l’animale o quasi è morto.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non son tenebra.
Buenos Aires,
che un tempo si lacerava in sobborghi
verso la pianura incessante,
è di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le confuse strade dell’Undici
e le precarie case vecchie
che seguitiamo a chiamare il Sud.
Nella mia vita son sempre state troppe le cose;
Democrito di Abder si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e somiglia all’eterno.
Gli amici miei non hanno volto,
le donne son quello che furono in anni lontani,
i cantoni sono gli stessi ed altri,
non hanno lettere i fogli dei libri.
Dovrebbe impaurirmi tutto questo
e invece è una dolcezza, un ritornare.
Delle generazioni di testi che ha la terra
non ne avrò letti che alcuni,
quelli che leggo ancora nel ricordo,
che rileggo e trasformo.
Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest
convergono le vie che han condotto
al mio centro segreto.
Vie che furono già echi e passi,
donne, uomini, agonie e risorgere,
giorni con notti,
sogni e immagini del dormiveglia,
ogni minimo istante dello ieri
e degli ieri del mondo,
la salda spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti,
l’amore condiviso, le parole,
ed Emerson, la neve, e quanto ancora.
Posso infine scordare. Giugno al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

Elogio dell’ombra (Einaudi, 1998), a cura di G. Felicida

Hans Magnus Enzensberger


Sovente ho la sensazione (bruciante,
oscura, indefinibile ecc.)
che l’Io non sia un dato di fatto
bensì una sensazione
di cui non mi libero.

La coltivo, le do spazio,
la corrispondo, di caso in caso.
Ma è solo una delle tante.

Le sensazioni si possono contare all’infinito,
cioè si lasciano sostanzialmente numerare,
fino alla noia.

Il numero della gelosia
è manifestamente il sette.
Anche la paura è un numero primo.
E ho la vaga sensazione
che l’umiliazione
rechi sulla fronte il 188 −
un numero senza qualità.
Anche la sensazione di essere numerato
suppongo sia da un pezzo numerata,
però: a che pro e da chi?

La sublime sensazione dell’ira
abita nel Grand Hotel di Hilbert
una stanza diversa
dalla sensazione
di essere superiori all’ira.

E solo chi è capace di darsi
alla sensazione astratta
dell’astratto sa
che questa in certe notti particolarmente chiare
suole assumere il valore di √− 1.

Poi mi corrono di nuovo i brividi
per la schiena, la sensazione
di essere un pacco,
quella non sensibile sensazione di intorpidimento
che sembra faccia scoppiare la lingua
dopo un’iniezione
quando va a saggiare un dente,
o il disagio
col suo penetrante sapore di piombo,
la potente sensazione d’impotenza
che tira irresistibilmente verso lo zero,
e la falsa sensazione
della vera emozione
con la sua orribile frazione continua.

Poi mi riempie
un’intersezione di sentimenti confusi,
colpa, estraneità, benessere, perdita,
tutte in una volta.

Soltanto alla suprema della sensazioni
l’Io sarebbe impari.
Invece di cercare di trascendere
con limite ∞,
preferisce lasciarsi sopraffare
per un minuto
dalla scossa dell’acqua gelido-bollente
sotto la doccia, il cui numero
nessuno ha ancora decifrato.

 

Chiosco (Einaudi, 2013) trad. it. Anna Maria Carpi

Konstantinos Kavafis


Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere d’incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti − finalmente, e con che gioia −
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta, piú profumi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Cinquantacinque poesie (Einaudi, 1968), trad. it. M. Dalmàti, N. Risi

Dylan Thomas

Nessun pensiero può turbare le mie pose malsane
Né smuovere l’austero guscio del mio spirito.
Non mi ferisci, la tua mano non può
Indurmi a ricordare e a esser triste.
Io ti prendo con me, dolce pena
E ti rendo piú aspra col mio gelo,
La mia rete che prende a rompere
Le fibre, o il filo dei sensi.
Nessun amore può forare
La spessa corazza di cuoio,
La dura crosta irrovesciabile
Che nasconde il fiore al profumo
E non mostra il frutto al sapore;
Nessuna onda può pettinare il mare
E incanalarsi in saldo sentiero.
Ecco l’idea che viene
Come un uccello nella sua leggerezza,
Sulle vele delle esili ali
Bianche per l’acqua sollevata.
Vieni, stai per perdere la tua freschezza.
Vuoi scivolare da te nella rete,
O devo io trascinarti
Nella mia esotica compostezza?

Poesie inedite (Einaudi, 1980), trad. it. A. Marianni

No thought can trouble my unwholesome pose.
Nor make the stem shell of my spirit move.
You do not hurt, nor can your hand
Touch to remember and be sad.
I take you to myself, sweet pain.
And make you bitter with my cold,
My net that takes to break
The fibres, or the senses’ thread.
No love can penetrate
The thick hide covering.
The strong, unturning crust that hides
The flower from the smell.
And docs not show the fruit to taste;
No wave comb the sea.
And settle in the steady path.
Here is the thought that comes
Like a bird in its lightness,
On the sail of each slight wing
White with the rising water.
Come, you arc to lose your freshness.
Will you drift into the net willingly.
Or shall I drag you down.
Into my exotic composure?

Silvia Bre

Ph. Dino Ignani

Cimiteri di campane via dal mondo
fanno l’unione della terra all’erba, vegliano
sulla diaspora dei morti, trame dell’insaputo,
nessuna luna ha una febbre così fredda
di rimanere ferma nelle notti, devota al vuoto.
Ma un’aria protesa è un fulmine, il venire meno
al loro patto insegnando senza luogo la disfatta
e non è alta la nota della fine ma si immagina tremenda,
la sua ferita fino in cielo è non morire.

Le campane (Einaudi, 2022)