Edna St. Vincent Millay


Sweet love, sweet thorn, when lightly to my heart
I took your thrust, whereby I since am slain,
And lie disheveled in the grass apart,
A sodden thing bedrenched by tears and rain,
While rainy evening drips to misty night,
And misty night to cloudy morning clears,
And clouds disperse across the gathering light,
And birds grow noisy, and the sun appears—
Had I bethought me then, sweet love, sweet thorn,
How sharp an anguish even at the best,
When all’s requited and the future sworn,
The happy hour can leave within the breast,
I had not so come running at the call
Of one who loves me little, if at all.

*

O dolce amore, dolce spina, quando
da te fui punta al cuore, piano, e uccisa,
per giacere nell’erba abbandonata,
povera cosa fradicia di lacrime
e di pioggia nel pianto della sera,
dalle notturne brume al grigio giorno
che disperde le nubi nella luce
fra il canto degli uccelli al nuovo sole –
se avessi, dolce amore, dolce spina,
pensato allora quale acuta angoscia,
anche se ti compensa il giuramento,
l’ora felice può lasciare in seno,
non sarei corsa cosí pronta al cenno
di chi in fondo m’amava cosí poco.

L’amore non è cieco (Crocetti, 1991), trad. it. Silvio Raffo

Giovanni Ibello

Ph. Valentina de Felice

Amin, è quasi giorno,
è la resa dei fuochi invernali
l’ectoplasma del divenire.
Dio, gheriglio di stella
insegnaci a svanire
poco a poco
insegnaci il dialogo amoroso
tra i picchi delle braci
e l’arpionata notte.
Adesso è tutta luna nuova
mentre ancora
tiri a sorte la vena
dio anatema,
ti sfiori trasognato le palpebre…
Quanti millimetri ci separano dal buio?

Dialoghi con Amin (Crocetti-Idee editoriali Feltrinelli, 2022)

Silvia Monti


C’è voluto del tempo e non solo,
per venirne fuori
e adesso che ci sono dentro fino al collo
fin sopra il collo
fin sopra la testa
(insomma, tutta)
non cerco le parole più di tanto
vivo, ci provo, vivo
e ti vivo accanto (e non solo).

E così non è te che canto
e tutto l’abbandono amoroso
che sento
mentre ti sfioro prima di dormire

resto in silenzio
perché solo tu
mi possa capire.

Persino semplice (Interno Libri Edizioni, 2023)

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Alfonso Guida


Mi trascino se ragiono, se tento
la pacificazione dello sguardo.
Se tento l’uguaglianza, un dio comune,
proprietà nuda e speculare, tanfo
di brasato e di crauti in locande
da poco. Studiavo un raro progetto,
metalli delle Terre Rare, corpi
transuranici, lo spato d’Islanda,
gli angoli nebulosi e acquei del diaspro.
Sì, è dura città questa luce amara,
l’attesa che un groviglio avvera e sfalda,
tra sonno e patergloria, Ave O Regina
sgomento all’ombra, novena straniera,
stellare, congiunta da alba a maniera,
sterrata radice di foglia erratica.
Tu non vegli più che per trarre amore
dai ritratti e dai corpi nudi, bruni,
baciati, alterni, stupefacenti occhi
di orfani chiusi in soffitta e sodali
disertori di cantine sociali,
circoli e club, furtivi blister vuoti
di ansiolitici, cavità gelate
di veleni metabloccanti e vergini
confuse tra le doglie e il latte munto
dai fidanzati col grappolo in gola
del frutteto sultano e del vigneto
stizzito, affogato da una colata
di cera e cemento, un gergo di malte,
malate madri, trecce calcinate.
Lo squero dei linciaggi, rifiorito,
rimesso al perdono e al patto di un vecchio
vassallaggio di mosche e morganatico
di speranze assorbite, come neve.

Inedito

Osip Mandel’štam


Mezzanotte a Mosca. Sfarzosa l’estate buddista.
A passi serrati si separano strade in stretti stivali di ferro.
Malati di nero vaiolo, se la godono gli anelli dei boulevard.
Neppure di notte Mosca trova pace,
se la quiete da sotto gli zoccoli fugge…
Tu diresti: da qualche parte là al poligono
due clown si sono installati, Bim e Bom,
e sono scattati pettinini e martelli,
ora s’ode un’armonica a bocca,
ora un infantile pianoforte di latte:
do re mi fa
e sol fa mi re do.

Da giovane solevo un tempo
uscire col soprabito cerato
nel diramarsi ampio dei boulevard
dove le gambine a fuscello di una zingarella si dibattevano nella gonna lunga,
dove passeggiava l’orso agli arresti –
menscevico eterno della natura stessa.
E a piú non posso odorava di lauroceraso…
Dove vai ora? Niente lauri, né ciliegie…

Alzerò il pesino a bottiglia
dell’orologio in cucina che va di gran carriera.
Quanto è ruvido il tempo, eppure
amo afferrarlo per la coda –
della sua fuga non ha colpa alcuna
ma è lo stesso un truffaldino…

Bada bene, non chiedere, non lagnarti! Shhh!
Non frignare –
per cosa i raznočincy
consumarono screpolati stivali, perché ora li tradissi?
Moriremo come fanti,
ma non celebreremo il furto rapace, né il lavoro a giornata, né la menzogna.

Ci resta la maglia lisa del nostro plaid scozzese.
Con questa bandiera di guerra mi coprirai, quando sarò morto.
Beviamo, amica mia, al nostro dolore d’orzo,
beviamo fino all’ultimo sorso…

Finito il fitto lavoro dei cinema,
fiaccate ne escono le folle
come dopo il cloroformio – quanto sono venose,
e bisognose d’ossigeno…
È tempo che lo sappiate: sono anch’io un contemporaneo,
un uomo dell’epoca di Moscatessile, –
guardate com’è informe la mia giacca,
e come so camminare e parlare!
Provate a strapparmi dal secolo, –
lo giuro: vi ci romperete il collo!

Io parlo con l’epoca, ma possibile
che abbia un’anima di canapa,
e da noi si sia piazzata
come un rugoso animaletto in un tempio tibetano:
una grattatina – e giú nella vasca di zinco.
«Mariuccia, facci ancora il tuo numero da circo!»
È forse un oltraggio – ma dovete capirlo:
c’è una lussuria del lavoro, e ci scorre nel sangue.

Albeggia. Frusciano i giardini come un verde telegrafo.
Da Rembrandt va in visita Raffaello.
Lui e Mozart stravedono per Mosca, –
per il suo occhio castano, per l’ebbrezza di passero.
E come posta pneumatica
o gelatina di medusa del Mar Nero
di appartamento in appartamento passano
spifferi in un’aerea catena di montaggio,
come studenti perdigiorno a maggio.

Quaderni di Mosca (Einaudi, 2021), a cura di P. Napolitano e R. Raskina

Gianni Rodari


Scherzi di Carnevale

Carnevale,
ogni scherzo vale.
Mi metterò una maschera
da Pulcinella
e dirò che ho inventato
la mozzarella.
Mi metterò una maschera
da Pantalone,
dirò che ogni mio sternuto
vale un milione.
Mi metterò una maschera
da pagliaccio,
per far credere a tutti
che il sole è di ghiaccio.
Mi metterò una maschera
da imperatore,
avrò un impero
per un paio d’ore:
per volere mio dovranno
levarsi la maschera
quelli che la portano
ogni giorno dell’anno…
E sarà il Carnevale
più divertente
veder la faccia vera
di tanta gente.

Cristina Alziati

Autoritratto

Lungo tutto l’inverno
ho spezzato i rami all’alloro
ho reciso i nudi steli della rosa
divelto fra le crepe dell’argilla
ogni verzura. Ma durano radici
sotto terra, e mostruosi a febbraio
spaccano il suolo germogli.
Io ora ho sonno per sempre.
Dunque alzati, Lazzaro, per un’ultima volta.
Per un’ultima volta sparisci.

Quarantanove poesie e altri disturbi (Marcos Y Marcos, 2023)

Agustín Fernández Mallo

Si es verdad que un cuadro no es más que una mancha interpretada, fue verdad que tus labios eran peces resucitados al masticar el pescado. Fue verdad aquel meditado movimiento de los cubiertos entre tus dedos. Fue verdad el bisbiseo de la fuente. Fueron verdad tus labios en la mousse, y la copa triangular de cuello alto [pubis transparente], y la esfericidad de tus ojos, y el infinito azul de los pezones, aquella noche. Si es verdad que un cuadro no es más que una mancha interpretada, yo era el intérprete y tú la mancha. [Ahora me pregunto cómo fue posible tanta belleza.]

*

Se è vero che un quadro non è che una macchia interpretata, è stato vero che le tue labbra erano pesci resuscitati nel masticare il pesce. È stato vero quel tuo movimento studiato delle posate tra le dita. È stato vero il bisbiglio della fontana. Vere le tue labbra sulla mousse, e il calice triangolare dal lungo stelo [pube trasparente], e la sfericità dei tuoi occhi, e l’infinito azzurro dei capezzoli, quella notte. Se è vero che un quadro non è che una macchia interpretata, io ero l’interprete e tu la macchia. [Ora mi domando come sia stata possibile tanta bellezza].

Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Interno Poesia Editore, 2023), cura e traduzione di Lia Ogno

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Francesca Benedetti


Gioco necessario

In questo bianco sola mi compongo,
obbediente alla regola del verso:
in questo spazio, spazio c’è per tutto
quel che di me rifiuto e non incastro.

Lo ingabbio in neri ed eleganti segni,
lo relego, lo esilio e non m’afferra;
mi faccio libera da me, mi guardo
come dall’alto, come dall’esterno.

Trovo pace in quest’ordine molesto:
triste apparenza, più non m’appartiene.

Vedo sanarsi, nel puzzle che dispone,
mentre accoglie il disegno che compone,
ogni inqueta tessera in conflittuale
contraddizione, con gli altri e con se stessa.

Inedito

John Williams

All night my house in wind and rain
Has trembled to each thunder-blast;
Now on my whistling window-pane
Dark branches huddle, wetly massed,
By white electric blazings cast.
How may one think of you tonight?
This is my pastoral: no song
That leads you through a meadow bright
With shepherds who dance the daylong.
Enmeshed by weather and the long
Level of dark whereon we dwell,
You make this pact your sentinel
Before the chambered night you share
Against the time that you would quell.
Lost upon the space we bear,
We turn all ways in the darkening air:
This storm reveals you in your distant room,
Bright in the darkness that we all consume.

I think of you tonight in storm,
This weather of our cumbered age –
Two lovers who oppose the swarm
Of time that you may not assuage
Nor your poor touching flesh engage
Or keep in love against the cold
Dim barreness that none escape.
Now at your window must the wind hold
New intimations of its shape;
Now upon your eaves the scrape
Of some dark bough must lead you hence
Into a field beyond your sense
Where mind and human love, gone weak,
Downward die in mute suspense.
I pray the gestured loves you wreak
Become tonight the love you seek,
Though closed in space the individual heart
Know but itself, and know it is apart.

Against this storm may you persist,
Strengthening love against the howl
Of nameless presences that prowl
Such nights as these, and keep your tryst;
And all that dark insatiate soul
Whose boding of immortal strife
Endures to drift you out of mind –
Hold, as you are held, to life.
By meshing lip and thigh defined,
Tonight in this vast weather blind,
You cling to what you cannot hold,
Like eyeless supplicants who find
In touch the snowflake’s multifold
Pure geometric shape of cold,
Which naked to the warmth of sense
Is found in warmth at its own expense.
In your quick need you have this storm confined;
O give it shape within the human mind!

*

Nel vento e nella pioggia fino all’alba
la casa ha sobbalzato ai tuoni;
ora sul davanzale soffia il vento
e un cumulo di rami neri, fradicio
è scampato alle folgori e ai lampi.
Come pensare a te, stanotte?
Ecco la mia pastorale: niente canzoni
che ti menino per verdi prati
tra pecorai danzanti fino a sera.
Intrappolata nel gelo e nella scia
di buio che abbiamo per sentiero,
di questo patto fai la sentinella
nella tua notte dalle mille stanze
che condividi per domare il tempo.
Perduti nello spazio che ci è dato,
tentiamo ogni via nell’imbrunire:
nel temporale al chiuso della stanza
ti stagli sull’oscurità di noi mortali.

Nel temporale ti penso questa notte,
nelle temperie di quest’età affannata –
due amanti che resistono allo sciame
del tempo che lenire ti è impossibile
che la tua povera, straziante carne
non innamora né trattiene a sé,
contro il deserto cui nessuno scampa.
Ora alla tua finestra il vento spinge
dei nuovi indizi della propria forma;
ora sulle grondaie senti il raschio
d’un nero ramo che ti guida
a un campo di là del tuo sentire
dove la mente e il cuore umano, spenti,
cadono morti in silenziosa attesa.
Prego che gli affannosi amori che ridesti
si mutino stanotte nel tuo grande amore,
anche se al chiuso di uno spazio, il cuore
non sa che di se stesso, e sa che è solo.

Che tu resista ai venti, duri la tua tresca
temprando l’amore contro il grido
delle presenze che vaghe e senza nome
s’aggirano in notti come questa.
E quella nera anima mai sazia
il cui presagio d’eterno conflitto
s’ostina a rapirti ai tuoi pensieri –
mantieni, al pari di te stessa, in vita.
Sei labbro e coscia che s’intrecciano,
stanotte in questo fortunale cieco,
ti afferri a ciò che non trattieni,
come una supplice dagli occhi cavi
che al tatto scopre nella neve
la multiforme geometria del freddo,
che esposta all’alito del senso
in quel tepore rinviene a sue spese.
Nel tuo bisogno hai confinato la tormenta;
ti prego, dalle forma nel pensiero!

Stoner e La necessaria menzogna (Mondadori, 2020) trad. it. S. Tummolini