Federica Gallotta


È un lento sollevare mattutino. Non so mai
dove – durante la notte – la moka s’è spostata
verso quale destino, di credenza o lavello
e con lei lo strofinaccio e il barattolo
del caffè. Mi dicesti che c’è: un rimedio, un metodo
per ritrovare le cose: cioè non usarle. Tutte
disporle insieme, come un sacrificio, e così
(mi avvisi ancora) ritroverei i biscotti, insonnoliti
e la mia pace all’apertura degli occhi, nell’attesa
calma dell’infusione del tè, quando ancora
intorno a me ogni cosa sonnecchia beata.

Modi indefiniti (Interno Poesia Editore, 2020), prefazione di Gabriella Sica

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Gerardo Masuccio


È segreta la frase
dei nostri deliri:
non una, però, neanche questa
notte
può ferire col buio l’aurora.

Un sorriso
reclama a chi piange
il passo del tempo.

Fin qui visse un uomo (Interno Poesia Editore, 2020), prefazione di Giovanna Rosadini

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Gisella Genna


Sono nata un venerdì, giorno pari dell’inverno
gli anni sgranati una vertebra alla volta.
Tolgo briciole dalla tavola della colonia antica
della casa bianca nel prato del bosco
dove andavamo insieme ai grandi;
la rosa di mia madre è testimonianza
sera che si scioglie tra le dita.

Quarta stella (Interno Poesia Editore, 2020), prefazione di Giovanna Rosadini

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Natasha Sardzoska

l’ardore del mezzogiorno

verrà il giorno
ma conterrà tutti gli altri

e tu mi chiederai
padre
se hai sbagliato qualcosa
ma il tuo mezzogiorno non sarà mai
per me un fallimento
mentre mangiamo sereni
sardine grigliate con cipolle
anche se vedo oramai
il vortice rosso
che si solleva
al di là
della tua
iride

Osso sacro (Interno Poesia Editore, 2020)

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Dimitri Milleri


Foto di Elena Agnoletti

Senti che pace qui: gli uccelli bevono
placidamente il buio senza grumi.
Era diverso allora, ti ricordi
quante candele accese dentro il cranio?
Raptus di clavicembali, frantumi
che non sai dire se sognati o solidi.

Dentro la notte carica di uranio
dormire tuttavia, riaprire gli occhi
sei ore dopo, crederle un istante,
stringere i denti e senza dire niente,
andare a Fiesole, suonare insieme.
Che avremmo dato allora per i cuori
che adesso dormono, dopo la pizza…

Sistemi (Interno Poesia Editore, 2020), prefazione di Maria Borio

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Beatrice Zerbini


Foto di Enrico Maria Bertani

Non ho tempo per essere infelice;
mi chiamano per nome gli orologi,
mi invitano alla festa
di salire
i gradini a due a due,
finché ho le gambe;
di bussare alla tua porta,
finché ho la bocca;
di vivere finché
sono viva.

Non ho tempo per essere
un lamento, declinare gli affetti,
tralasciare il miracolo
di amarsi in due
io sto morendo e

ti distillassi l’amore –
un amore normale –,
a partire da ora,
con l’odore del brodo
su per le scale
e gli esami del sangue a digiuno,
le commissioni,
il carrello storto della spesa,
non saprei come
dartelo tutto e come
recapitarti la cura che ti serbo
intera;
amarti mille volte
con una vita sola.

In comode rate (Interno Poesia Editore, 2019), prefazione di Alba Donati

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Guido Gozzano

Alle soglie

II

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte – ma per te solo m’accora –
che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo
le danno un nome, che, credo, esprima un cosa non tetra)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.

 

I colloqui e altre poesie (Interno Poesia Editore, 2020), a cura di Alessandro Fo

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Mattia Tarantino


Vorrei conoscere il mondo dei morti,
reclamarlo in una lingua senza storia
che non abbia una grammatica, ma possa
avverare tutto ciò che si pronuncia.

Mi usano per parlare a chi è rimasto,
vogliono che dica, rovesciandola,
la parola che non hanno mai trovato

Inedito da “L’età dell’uva”

Philip Larkin


Here

Swerving east, from rich industrial shadows
and traffic all night north; swerving through fields
too thin and thistled to be called meadows,
and now and then a harsh-named halt, that shiedls
workmen at dawn; swerving to solitude
of skies and scarecrows, haystacks, hares and pheasants,
and the widening river’s slow presence,
the piled gold clouds, the shining gull-marked mud,

gathers to the surprise of a large town:
here domes and statues, spires and cranes cluster
beside grain-scattered streets, bargecrowded water,
and residents from raw estates, brought down
the dead straight miles by stealing flat-faced trolleys,
push through plate-glass swing doors to their desires –
cheap suits, red kitchen-ware, sharp shoes, iced lollies,
electric mixers, toasters, washers, driers –

a cut-price crowd, urban yet simple, dwelling
where only salesmen and relations come
within a terminate and fishy-smelling
pastoral of ships up streets, the slave museum,
tatoo-shops, consulates, grim headscarfed wives;
and out beyond its mortgaged half-built edges
fast-shadowed wheat-fields, running high as hedges
isolate villages, where removed lives

loneliness clarifies. Here silence stands
like heat. Here leaves unnoticed thicken
hidden weeds flower, neglected waters quicken,
luminously-peopled air ascends;
and past the poppies bbluish neutral distance
ends the land suddenly beyond a beach
of shapes and shingle. Here is unfenced existence:
facing the sun, untalkative, out of reach.

 

*

 

Qui

Deviando a est, da ombre lunghe di industrie
e dal traffico a nord di tutta una notte; deviando per i campi
troppo bassi e ricoperti di cardi per essere campi
e all’improvviso un passaggio tra i binari, che scherma
al tramonto gli operai; deviando sulla solitudine
di cieli o spaventapasseri, balle di fieno, lepri e fagiani,
e la presenza lenta del fiume che si allarga,
e la fila di nuvole d’oro, il fango d’oro pestato dai gabbiani,

si raccoglie sorprendendo una grande città:
qui cupole e statue, guglie e gru si ammassano
a fianco di strade disseminate, il fiume pieno di barche,
i residenti di tenute grezze, bruciate
le miglia a perdita d’occhio, vagoni bassi e furtivi,
spingono oltre le porte battenti dei loro desideri –
vestiti economici, stoviglie, scarpe coi tacchi, ghiaccioli,
mixer elettrici, tostapane, lavatrici, asciugatrici –

una folla a metà prezzo, moderna ma semplice, dimora
dove solo venditori e relazioni vengono
in una pastorale di navi terminate in vento
che sa di pesce, il museo degli schiavi,
tatuatori, consolati, mogli austere coi foulard;
e molto oltre i suoi ipotecati costruiti a metà
campi di grano presto scuri, che crescono
come case recintate dalle siepi, dove la solitudine

chiarisce le vite rimosse. Qui il silenzio è come
il caldo. Qui le foglie cresciute a saperlo
nascondono fiori tra le erbacce, la corrente del fiume dimessa,
l’aria che risale di luce corpuscolare;
e oltre i papaveri bluastri a distanza imparziale
la terra finisce improvvisa al di là una spiaggia
di forme e sassi. Qui è un’esistenza affrancata,
a un palmo dal sole, afasico, fuori dalla portata.

 

Da The Whitsun Weddings / Le nozze di Pentecoste (1964)

Traduzione di Demetrio Marra

Mimi Khalvati


Eden

In this country, nature is green on green.
In mine, green grows out of ochre, fawn, dun –
what are the colours of dust? Caught between
fruit trees, what are they but shifts of the sun?

In this country, grass and tree are implicit
in each other, as in water. In mine,
dust and tree are awkward friends who elicit
only the same blessings at the same shrine.

But it’s dust that deepens shadows, the tree
that plays on colours watermarked by shade.
When shade is deep as water, roots drink deeply,
and drinking from the same pool, friends are made.

If only we were dust and tree. My children,
grown from my poor soil. I imagined Eden.

 

*

 

Eden

In questo paese la natura è verde su verde.
Nel mio, il verde spunta sull’ocra, sul fulvo, sul grigio –
quanti colori ha la polvere? Catturati tra
gli alberi da frutto, non sono che variazioni di sole.

In questo paese albero ed erba sono dati certi
come del resto l’acqua. Nel mio,
albero e polvere sono amici impacciati che solo
implorano la stessa benedizione a un unico tempio.

Ma è la polvere che rende scure le ombre, l’albero
che gioca sui colori filigranati dall’ombra.
Quando l’ombra è profonda come l’acqua, le radici bevono a fondo
e bevendo dalla stessa pozza, si fa amicizia.

Se solo fossimo noi albero e polvere. I miei figli,
nati dall’aridità del mio terreno. Immaginavo l’Eden.

 

(traduzione Andrea Sirotti)