Erri De Luca

Erri-De-Luca

Intervento a una assemblea sul carcere

In Sarajevo circondata si poteva entrare
durante una diminuzione di proiettili.
Ma noi stasera non entriamo a Sarajevo
e niente spartiamo con chi sconta,
nemmeno il possesso di una chiave.
Da noi stasera il tempo trottola per strada,
sbanda in un vagone, si rigira in un letto a due piazze,
aspetta una telefonata,
stasera da noi il tempo fa le sue faccende.
Dentro la cella è chiuso,
corre solo in testa a chi non lo trascorre.
Un giorno chissà quando sarà l’ultimo,
il prigioniero uscirà incontro al tempo
che scodinzolerà tra le sue gambe
come un cane invecchiato.
Un giorno chissà quando
sarà di nuovo il primo all’aria aperta.
Ma noi stasera qui parliamo di prigione
come sazi che parlano di fame.
Siamo gli altri, quota eccedente ch’è rimasta fuori
per mancanza di spazio e di sfortuna.
L’unica mossa giusta sarebbe contro i muri
appoggiare l’orecchio così forte
da farli cadere.

Bizzarrie della provvidenza (Einaudi, 2014)

Renzo Paris

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il pianeta interiore

Oggi che la terra è affebbrata
il mio pianeta interiore è
attraversato da gialli fuochi

di distruzione. È la memoria
il pianeta che muore, carico di icone
in movimento, di persone care

che si dissolvono. Mentre passeggio
nella stanza e sfioro come un cieco
le costole dei libri, mi sento

in un pianeta dove il futuro sono
le morte stagioni e la presente
che è già materia di ricordo.

Ma il mondo è ancora e sempre
salvato dagli occhi di un bambino?

 

Il fumo bianco (Elliot, 2013)

© Foto di Dino Ignani

Veronica Cavedagna

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Non mi metto a cercare nelle tue tasche:
se trovassi del resto?
Mi metterei a contarlo.
Baci e incontri,
salite e discese,
pronomi personali
o giorno dopo giorno:
quale unità di misura?

Il resto non si conta,
si mette in tasca,
si riusa,
ritorna.

Se fossi io a finire nelle tue tasche:
biglietto accartocciato,
briciole di tabacco sciupato,
un capello che non si scrolla.

Il resto di me che rimane non lo conti,
lo metti in tasca,
lo riusi,
domani, ritorni?

 

© Inedito di Veronica Cavedagna

© Foto di Nicolò Triacca

Gennadij Ajgi

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Di questo

molto o poco
ma il dono dell’amore
poi si trasformerà
in un vuoto tale che occorrerà riempirlo
con un grande dolore: forse tu non vedrai –

(vedranno gli altri) –

come per la pienezza, da te compiuta,
essa turbinerà! – l’unità
dell’antico dono di un amico silente
e della triste memoria:

un astro umano semplice e modesto
(quasi una chiazza a occhi chiusi) –

per il mondo (forse – solo per il cielo e l’aria)

La nuova poesia russa (Crocetti, 2003), a cura di P. Galvagni

Nick Flynn

© Geordie Wood 2009 ALL RIGHTS RESERVED www.geordiewood.com

Emptying Town

Each fall this town empties, leaving me
drained, standing on the dock, waving bye-
bye, the white handkerchief
stuck in my throat. You know the way Jesus

rips open his shirt
to show us his heart, all flaming & thorny,
the way he points to it. I am afraid
the way I miss you

will be this obvious. I have

a friend who everyone warns me
is dangerous, he hides
bloody images of Jesus around my house

for me to find when I come home – Jesus
behind the cupboard door, Jesus tucked

into the mirror. He wants to save me
but we disagree from what. My version of hell
is someone ripping open his
shirt & saying

look what I did for you.

 

From: Nick Flynn, Some Ether, Graywolf press, 2000

 

*

 

La città si svuota

Ogni autunno questa città si svuota, mi lascia
esaurito, in piedi sul molo a salutare ciao
ciao con la mano, il fazzoletto bianco
bloccato nella gola. Sai, il modo in cui Gesù

si strappa la camicia
per mostrarci il cuore, tutto fiamme e spine,
il modo in cui l’addita? Temo che
il modo in cui mi manchi

sia così scontato. Ho

un amico che tutti mi dicono
sia pericoloso, nasconde
immagini insanguinate di Gesù in casa mia

perché le trovi quando torno – Gesù
dietro lo sportello della credenza, Gesù infilato

nello specchio. Vuole salvarmi ma siamo in disaccordo
su quale sia il pericolo. La mia versione dell’inferno
è qualcuno che si strappa
la camicia e dice

guarda cosa ho fatto per te.

 

Versione italiana tradotta da Marco Simonelli

Paolo Polvani

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Il confine del vento

Questa campagna esatta e laboriosa tenere tra le braccia,
masticarla piano, assaporare tra i denti una gioia
assoluta e senza credi, diventare lo sguardo fisso delle vigne,
essere i sentieri che corrono a perdifiato tra gli ulivi, vene
che ingurgitano i verbi della luce, la grammatica breve
degli insetti, le vite infinite e sconosciute, le chiome
nebulose dove si frange il volo della gazza, le aperte
geometrie, se potessi questa terra ingoiarla, digerirne
le masserie lucide di calce e di silenzi, essere il brusio
delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, se potessi
essere la memoria di tutti i fili d’erba, essere io lo sguardo
il suono, il confine del vento.

 

© Inedito di Paolo Polvani

© Foto di Riccardo Filograsso

Eunice Odio

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Vorrei essere bambina

Vorrei essere bambina,
per accoppiare le nubi a distanza
(alte claudicanti della forma),
per andare all’allegria di ciò che è piccolo
e domandare,
come chi non lo conosce,
il colore delle foglie.
Com’era?
Per ignorare ciò che è verde,
il verde mare,
la risposta salubre del tramonto in ritirata,
il timido gocciolare delle stelle
sopra il muro vicino,
essere bambina
che cade d’improvviso
dentro un treno con angeli,
che giungevano così, di vacanza,
a correre per poco tra le uve,
o per notturni
fuggiti da altre notti
di geometrie più alte.
Ma orma, cosa devo essere?
Se mi sono nati questi occhi così grandi
e questi chiari desideri di sbieco.
Come posso essere ormai
quella che voglio io
bambina di verdi,
bambina vinta di contemplazioni,
che cade da se stessa rosea,
… se mi dolse moltissimo dire
per cogliere di nuovo la parola
che fuggiva,
saetta scappata dalla mia carne,
e mi è doluto molto amare a tratti,
impenitente e sola,
e parlare di cose incompiute,
tinte cose di bimbi,
di candore dissimulato,
o di semplici api
aggiogate a tristi rosari.
O essere colma di questi scatti
che mi cambiano il mondo a gran distanza,
come posso essere ormai,
bambina in tumulto,
forma mutevole e pura,
o semplicemente, bambina alla leggera,
divergente in colori
e adatta per l’addio
ad ogni ora.

 

Come le rose disordinando l’aria (Passigli, 2015), a cura di T. Pieragnolo e R. Gallitelli

Mario De Santis

mario de santis
Improbabile

Per questo senza vivere, tutto parla
come i fogli di montaggio dei mobili
con dei vaghi disegni perentori: perché inutili i nomi
secchi, che esistono solo nell’ arredo, fanno le capsule comuni
del riconoscersi, ma senza mai vedere come è uno nell’altra.
Come è improbabile, mia amica, il congedo
in questo svegliarsi in un giorno e averlo già vissuto:
si moltiplica il formicolio delle mani appena invadiamo
viali al mattino, come le braccia sollevate in un bus
tutti quelli che hanno in silenzio lo stesso
divano, il lavello, l’armadio, non lo chiamano più
per quel nome, c’è il panico delle cose comuni.
Era il fulmine a dare l’enigma, ora è il calore che combacia
la mano che si aggrappa vicina alla mia mano
la vita che sta tra il capo chino e il vapore che siamo.
Come fare un lavoro, come scrivere addio:
nessun atto è più urgente se tutto è solo immediato
e si ripetono solo le attese disperate: chi è muto
chi ha perso le chiavi o un paese e sta fermo come una farfalla
sull’epidemia di carezze illuminate.
Chi ha affogato dolore sbarcando nel suo vuoto.
Loro in ombre come noi, sono lo sbuffo cupo
dalle grate vicine al marciapiede, dalle crepe, nei volti,
un sottofondo.
Noi non lasciamo più orme, qui c’è il catrame appena messo,
ma da dove parlano quelle è un tumulto, una tosse di veleni:
vanno a grappoli dal Sahara al carbonio,
a condividere assenti e presenti,
una mattina di malesseri, il disgusto, il sale nei cappotti
dove c’è vomito, e dire no, e non voltarsi, e nessuno
essere soli, toccare davvero. Abbiamo un giorno da riempire,
come le ragazze dell’amore, minacce e desideri.
Lo dimentichiamo, amica mia,
non vedi che è solo fluorescenza come me, come te, non ci vedi
scomposti e ricomposti in una replica a sera, nei ritorni dal lavoro?
Siedi ora sul divano e guardi l’alone dei led
senti questo giorno sognato come l’ultimo, come incerto
materiale di una veglia, corollario, testamento, e credi finirà?

 

© Inedito di Mario De Santis

Chandra Livia Candiani

Chandra-Livia-Candiani

Tu morto
sei lo strappo nel sipario
la rosa inclinata
fino a far dubitare
della verticalità dell’aria
la vertigine che si rinnova
senza notizia, il nodo
che altri chiamano corpo.
Tu nell’altra parte del tempo
sei il sorriso
delle piastrelle in cucina
il mio passo leggero
il tuo inchinarmi fino
alla devozione dell’assenza
senza prove; tu mi misuri
ora su un metro
di unità ignota:
uscita dalla superstizione
della tua presenza, entrata
nella pioggia

 

Bevendo il tè con i morti (Interlinea, 2015)